Frontiere culturali
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Quali orizzonti si aprono a partire
dalla molteplicità di reti e di flussi
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E’ giunto il momento del congedo e dunque di un bilancio. Ho
preso mille anni di storia e ho cercato di guardare orizzonti e prospettive che
non fossero i luoghi comuni che circolano nelle scuole e nei social. Molti
fatti citati sono noti a tutti, molti invece trovano impreparati la maggior
parte dei lettori, ma non era l’intenzione delle mie lezioni raccontare fatti e
personaggi. Ciò che conta è il metodo e il senso di ciò che conosciamo e, naturalmente,
senso vuol dire sia significato sia direzione.
La pretesa di fare una storia oggettiva, sull’onda della
scienza seicentesca, è naufragata e non soddisfa più un’indagine seria. Che non
esistano fatti ma solo interpretazioni è vero non perché lo ha detto Nietzsche,
ma perché la scienza della complessità ne ha chiarito il senso in modo sia
sperimentale sia teorico.
Le interpretazioni corrispondono al ruolo dell’osservatore
nella fisica quantistica e sono divenute elemento centrale per una scienza che
intenda studiare fenomeni complessi; non si tratta quindi di relativismo
culturale, quell’approccio ideologico che va tanto di moda. L’interpretazione
apre la strada alla responsabilità che non era presente nella visione oggettiva
di un tempo che dalle scienze fisiche si era diffusa anche alle scienze umane.
Il fatto in sé può essere anodino nel senso che non c’è
dubbio che Napoleone sia morto a Sant’Elena o che grazie alla Breccia di Porta
Pia Roma poté diventare italiana, ma non è più questo che interessa allo
storico e a chi vuol parlare di Storia. Esiste sempre un punto di vista con cui
guardiamo le cose e persino le fotografie possono porre problemi di interpretazione:
purtroppo il relativismo culturale che giustifica tutto e tutti (in realtà non
proprio tutto e tutti) ha aperto la strada alle teorie del complotto, per cui
c’è gente che mette in discussione fatti incontrovertibili come l’allunaggio
del 1969. Molti, quando parlano di fenomeni storici, si limitano a mostrare una
fotografia o un gruppo di fotografie, mentre la storia è un film dunque
qualcosa in continuo movimento. Una collega diceva che nel conflitto tra
Israeliani e Palestinesi un ebreo e un palestinese avrebbero dato versioni
diverse di un avvenimento. Dietro questa riflessione apparentemente ovvia si
nasconde una confusione metodologica che si fonda sul deprecato relativismo
culturale. Che poi spesso sfocia nel moralismo e nell’anacronismo. Il ruolo
dell’osservatore e l’importanza dell’interpretazione obbligano a spiegare qual
è il punto di osservazione dal quale guardiamo il fenomeno. Ad esempio spesso
(se non quasi sempre) la posizione filoebraica nasce da un punto di vista
liberaldemocratico, mentre quella filopalestinese da un presupposto
antioccidentale: entrambe riflesso uno di un paese democratico e l’altro di un
atteggiamento politico totalitario e, in molti casi (a partire dall’Iran)
chiaramente razzista.
Un aspetto che è duro a morire riguarda il retaggio dello
storicismo, per cui se un fatto è successo esso doveva necessariamente
accadere; ma questo non corrisponde alla realtà perché, come ricorda Ricoeur, “anche
il passato aveva un futuro”. Questo è un buon punto di partenza per cercare
di affrontare lo studio della storia, cioè comprendere che ad ogni istante e in
ogni luogo esistono diverse possibilità: esse nascono, come mostra la biologia,
da dei vincoli, ma non ce n’è una preferita, di possibilità. Il determinismo,
che è alla base di questa visione, è stato sconfitto nelle scienze fisiche e
averlo riproposto nel campo delle scienze umane non è stato solo un errore, ma
una tragedia: vedi in proposito il Sol dell’Avvenire e il Comunismo come la
società alla quale necessariamente saremmo dovuti approdare.
Questo capitolo non vuole fornire proiezioni neppure
statistiche sul futuro dell’umanità, perché non è possibile e la storia ha
smentito i numerosi veggenti che si sono alternati. Uno degli uomini politici
più colti e potenti della fine del 1900 fu il Segretario di Stato americano
Henry Kissinger, anche Premio Nobel per la Pace: ha sempre negato la
possibilità del crollo dell’Unione Sovietica e dei regimi comunisti, per cui la
sua politica era improntata a una convivenza pacifica. Ebbene fu smentito. La
storia ha smentito Kissinger, ha smentito le democrazie occidentali di Monaco
rispetto a Hitler, ha smentito gli Israeliani che restituirono Gaza ai
Palestinesi convinti di poter arrivare alla pace e al rispetto reciproco. La
storia ci ha insegnato che essa raggruppa fenomeni estremamente complessi e che
pretendere di individuare quale sarà il futuro è un esercizio molto poco
produttivo.
Da questo però non occorre dedurre che siamo in balìa del
caos e che tutto può succedere indipendentemente dalla nostra volontà e dalla
nostra libertà: la Storia è fatta dagli uomini e li modella modellandone il
comportamento. Essa nasce con un’esigenza di sopravvivenza, costi quel che
costi, e si allarga poi a campi sempre più complessi, distruggendo la società
umana ma anche permettendole di ricostruirsi e rafforzarsi: non si tratta di
imparare dagli errori del passato, perché i fenomeni, anche quando sembrano
simili a fenomeni precedenti, sono sempre diversi; ma spesso la somiglianza è
molto apparente. Dalla sopravvivenza nuda e cruda, a qualsiasi prezzo, si è
passati all’esigenza di un miglioramento complessivo: caratteristiche del
passato come dominio e violenza non sono state abolite, ma lentamente si è cominciato
a comprendere che la collaborazione produce risultati migliori per tutti. La
scienza della complessità lo ha dimostrato ad esempio con il dilemma del
prigioniero e con i numerosi fenomeni di cooperazione che si registrano in
natura. Questo non significa che collaborazione, cooperazione e solidarietà debbano
essere sempre e comunque la prima scelta e che producano automaticamente risultati
migliori: la competizione è un fattore determinante e ineliminabile dei
comportamenti umani e del miglioramento della società.
Uno studioso tedesco di fine Ottocento-inizio Novecento, W.
Wundt, ha coniato il termine “eterogenesi dei fini” per illustrare l’interazione
tra scelte dell’uomo e conseguenze complessive, che spesso risultano essere
divergenti dalle intenzioni. Ciò avviene perché esiste una forbice, anche molto
estesa, tra fenomeni complessi, e molto complessi, della realtà e gli
strumenti, sempre in ritardo, se non spesso esageratamente semplici, con cui
gli uomini li affrontano.
Dichiariamo l’amore e finiamo con odiare la persona amata; i
rivoluzionari francesi coniarono il motto “libertà, uguaglianza, fraternità”
e dettero vita al Terrore; milioni di persone scelsero il comunismo per
realizzare la felicità in terra e produssero società di un dolore
inimmaginabile. Se a questi comportamenti che mettono in gioco solo le
relazioni umane aggiungiamo gli imprevedibili accadimenti opera
dell’ecosistema, come terremoti, tempeste, uragani, inondazioni, siccità,
allora vediamo che la complessità dei sistemi che si vengono a creare è di un
grado molto elevato. Oggi sappiamo, grazie alla scienza della complessità, che
l’evoluzione dei fenomeni (sociali e non) risente fortemente dello scarto anche
minimo nelle condizioni di partenza: il tutto viene esemplificato dall’espressione
“un uragano ai Caraibi può dipendere dall’eventuale battito d’ali di una
farfalla in Brasile” (il noto effetto farfalla).
Le conseguenze di queste premesse comportano un’attenzione
maggiore al carattere specifico degli avvenimenti e delle situazioni, con il
ruolo decisivo e non secondario del luogo e del tempo, mentre diventa
fondamentale la dimensione strategica nei confronti della tattica.
Rispetto al primo elemento cito un fatto ricordato da E.
Morin nel convegno “Relier le connaissançes”: Hitler ritardò il suo
arrivo in Russia per risolvere alcuni problemi di governabilità nei Balcani;
questo ritardo lo consegnò al Generale Inverno influenzando negativamente la
riuscita della spedizione.
Per il carattere decisivo della strategia è importante
considerare quanto, in termini di responsabilità, coinvolge ogni soggetto in
una società sempre più interconnessa e in mancanza di veri e propri valori
condivisi. Le mutevoli condizioni, l’intervento di sempre nuovi soggetti, la
crescente complessità delle relazioni impediscono di fare affidamento su
procedure stabili e definite e obbligano alla definizione di un quadro generale
di riferimento (strategia) dentro la quale operare di volta in volta ed essere
pronti a mutare il percorso (tattica) mantenendo la prospettiva e l’orizzonte
che ci caratterizzano.
Oggi troppo spesso si tende a improvvisare per cercare di
star dietro alla mutevolezza dei fenomeni, sostituendo un metodo rigoroso con
analisi ed affermazioni precarie derivanti dal moralismo e dall’anacronismo. Le
lezioni nelle scuole diventano un elenco ininterrotto di cause ed effetti che
poco dicono su ciò che è successo, ma molto fanno intuire della visione
ideologica dell’estensore. Si crea in questo modo una continua scissione nelle
menti dei giovani che si trovano a sostituire valori universali non più vivi
con improvvisati valori morali che possono andar bene per scelte individuali,
ma che nulla hanno da dire e da proporre per il funzionamento e il
miglioramento di una società.
Nell’appendice a questo post citerò alcuni esempi di questo modo
di presentare personaggi e fatti storici, qui continuerò con la mia riflessione
sulle prospettive.
Cosa vogliamo dalla Storia e cosa non vogliamo? Ecco un buon
punto di partenza.
I Cons (Cosa non vogliamo)
1)
Non vogliamo affrontare la storia in modo moralistico; non possiamo giudicare la Storia
secondo categorie come il bene e il male, il buono e il cattivo. E questo per
un paio di ragioni.
Innanzitutto si tratta di categorie semplici,
anzi semplicistiche: ridurre eventi e persone, siano esse importanti o non, a
uno schema bipolare denuncia una superficialità e un’approssimazione che non hanno
pari.
In secondo luogo si fa riferimento a
due lenti che possono solo fare una fotografia, mentre la Storia si propone in
continuo movimento e anche una ripresa cinematografica risulterebbe fortemente
limitata, agendo su un solo piano.
2)
Non vogliamo ragionare per cause-effetti. La scienza della complessità, anche
quando affronta lo studio di piccolissime particelle, ci dice che non è
possibile prevedere il tragitto che magari rimane costante per un gran tratto
ma poi comincia a discostarsi. Se questo è vero per singole particelle
figurarsi per un intreccio quasi infinito di relazioni, come quello che
rappresenta le dinamiche storiche che per di più vivono anche in uno spazio e
in un tempo complessi.
3)
Non vogliamo ragionare finalisticamente, cioè individuare una direzione,
necessaria, inevitabile, dei fenomeni storici. La tragedia del comunismo lo ha
dimostrato nei fatti, ma questa è la diretta conseguenza di quanto esposto nel
punto precedente, anzi ne è l’altra faccia: un percorso qualsiasi tende a
scostarsi dalla direzione iniziale mano a mano che procede. L’effetto
farfalla e l’eterogenesi dei fini sono due aspetti che gli studiosi
(fisica e psicologia) hanno elaborato per farci comprendere questo agire della
Natura e della Storia.
I Pros (Cosa vogliamo)
Vogliamo studiare i fenomeni storici, eventi e personaggi,
con la chiarezza che:
1)
La Storia è innanzitutto relazione, rapporto e dunque va studiata in modo reticolare: un
insieme di reti che si interconnettono influenzandosi reciprocamente. Per far
questo occorre rifiutare categorie semplificatrici che impediscono di cogliere
i vari aspetti. Naturalmente la possibilità e la capacità di coinvolgere un
numero sempre maggiore di relazioni richiede una particolare attenzione ed
esprime più il senso di una ricerca che la soluzione di un problema.
2)
In quanto relazione la Storia va sempre contestualizzata, cercando di partire da un hub al
centro di una rete e andare a scoprire i legami che questo nodo stabilisce,
legami che, oltre ad essere spaziali, sono soprattutto temporali. Questo ci
permette di evitare, insieme all’anacronismo, anche il moralismo: che senso ha
parlare dell’Imperialismo italiano nei confronti dell’Etiopia senza analizzare
il precedente imperialismo etiopico nei confronti delle popolazioni della
regione?
3)
Lo
studio della Storia non differisce di molto dallo studio scientifico in
generale, per il quale sempre più è riconosciuto il ruolo dell’osservatore.
Dichiarare quali sono gli interessi e le prospettive con cui lo studio viene
fatto permette di chiarire l’approccio con cui si guarda ai fenomeni. Se in tal
senso uno studio oggettivo della Storia non è possibile, il ruolo
dell’osservatore permette di inquadrare i risultati, favorendo il dibattito e
l’approfondimento.
4)
Nell’ultimo
secolo si è proceduto anche in campo storico a una frammentazione della materia
del tutto simile ad altre scienze, in particolare la medicina, dove si è andati
verso una crescente specializzazione che ha perso di vista l’insieme della
persona. Così nella Storia si è andato parcellizzando: S. delle relazioni
internazionali, S. del Parlamento, S. dei partiti; S. dell’emigrazione; S. dell’agricoltura;
S. dell’industria e così via. Da qualche decennio si è invertito il cammino
cercando di procedere a una ricomposizione, e questo vale per la
Medicina come per la Storia.
5)
E’
naturale che la ricomposizione non significa il passaggio a una visione globale,
che rischierebbe di essere il ritorno a una Filosofia della Storia, ma essa
indica la consapevolezza dei legami tra i diversi nodi e tra le diverse
relazioni. Globale e locale si intrecciano, ma nel senso di allargare la
visione a partire dalla rete da cui partiamo come oggetto del nostro studio.
A partire dalle 11 lezioni proposte
in questi mesi e tenendo conto di questi punti, pro e contro, di carattere
metodologico, ecco quali orizzonti è possibile individuare.
1)
Non
esiste alternativa a un sistema politico-istituzionale di tipo
liberal-democratico, quello che comunemente è chiamato “democrazia”.
Va detto che il numero dei paesi che si rifanno a questo tipo di istituzione è
cresciuto notevolmente e regolarmente a partire dalla fine della Seconda Guerra
Mondiale. E questo è significativo. Forse ancor più significativo è il fatto
che persino paesi o movimenti politici di indubbia vocazione totalitaria
sentano il bisogno di richiamarsi al “sistema democratico”. Ma il sistema
democratico non si riduce a delle elezioni, che, come a Gaza, in alcuni paesi
africani o del Medio Oriente, non garantiscono la volontà democratica: sono
necessari altri elementi, come la separazione dei tre poteri, la libertà di
stampa, organizzazione, fede, la presenza di partiti politici senza restrizioni.
La Storia e la Cultura purtroppo incidono in modo pesante sulle possibilità di
trasformazione. In quei paesi che parlano di democrazia ma hanno difficoltà a
realizzarla esistono gruppi contrapposti (etnici o religiosi come in Irak) che
vedono il diverso, l’avversario come un nemico e dunque il loro obiettivo è il
potere assoluto, non la dialettica democratica.
2)
Anche
a livello economico non esiste alternativa all’economia di mercato,
quella che comunemente è chiamata capitalismo. Fallita l’esperienza dell’economia
socialista, completamente infondato il ritorno al baratto o a un’economia
feudale, l’ipotesi di decrescita (felice?) risulta talmente fantasiosa che
rimane appannaggio solo di qualche intellettuale che gioca all’economia come un
capitalista al Monopoli. Il carattere fantasioso non sta solo nel modestissimo
seguito, ma proprio nell’insieme delle proposte: queste sono basate su un
superpotere mondiale che evoca le peggiori istanze totalitarie, rinviando
dunque a una gestione centralizzata tipica delle economie socialiste, uscite di
scena da tempo. In più questa teoria vive di una contraddizione di fondo: da un
lato critica la crescita anche perché causa di esclusione dall’altro vorrebbe
impedire agli esclusi di migliorare le loro condizioni di vita. Ciò non
significa che la realtà economica rimarrà ingessata: come si è visto in quasi
due secoli si è passati dalla libertà economica che faceva riferimento
all’Inghilterra a un’economia protezionistica e statalista per poi, dopo il
1945, tornare a una libertà economica che si è estesa fino a globalizzarsi.
Dunque è probabile che alcuni cambiamenti avverranno. Intanto il ruolo dello
Stato è cresciuto un po' ovunque, anche nei paesi, come gli USA, che hanno una
tradizione molto poco statalista, ma va aggiunto anche il fatto che la libertà
economica attuata con la globalizzazione ha notevolmente migliorato le
condizioni di vita di centinaia di milioni di persone (chiedere in primis a
Indiani e Cinesi). Questo ha due conseguenze importanti, la prima riguarda il
fatto che molto difficilmente si realizzerà una chiusura sostanziale dei
mercati, la seconda che questo processo andrà coinvolgendo un numero sempre
maggiore di persone. In questo senso le crisi come quella del 2008, i conflitti
sui dazi come quelli tra USA e Cina, le spinte per avvantaggiarsi (come la
Turchia nel Mediterraneo o la Cina nel Mar Cinese) fanno parte del gioco.
3)
Quanto
visto sinora non ha incrinato il quadro delineato dal crollo del comunismo,
cioè una sostanziale coesistenza pacifica. La Storia è Storia e dunque
pensare che lo slogan “Pace nel mondo” possa realizzarsi in concreto è pura
fantasia. Attualmente esistono focolai bellici, anche gravi ma estremamente
circoscritti: in Europa esiste il nodo ucraino rispetto alla Russia, in Africa
è soprattutto la guerra civile in Libia a destare molte preoccupazioni, mentre
il Medio Oriente rimane l’area più calda soprattutto per la pretesa iraniana di
diventare il punto di riferimento. Dietro questa pretesa esiste però una
rivalità religiosa secolare tra sciiti (l’Iran ne è appunto il centro) e
sunniti, che porta alla destabilizzazione (Siria, Libano, Yemen) anche perché
l’Iran è l’unico paese islamico che ha dichiarato pubblicamente di voler
cancellare Israele dalla faccia della terra. Il pericolo maggiore rimane
comunque il terrorismo islamico che, dopo la sconfitta dell’Isis, continua ad
operare in modo massiccio in Nigeria, in Somalia, nelle Filippine e nell’Afghanistan
dei Talebani, oltre che attraverso lupi abbastanza solitari nel resto del
mondo. Anche rispetto a questo fenomeno è difficile pensare a uno scontro
militare tra nazioni, tanto meno a livello globale.
4)
Un
elemento la cui portata è difficile da calcolare riguarda il carattere decisivo
che ha assunto a livello mondiale il ruolo dell’individuo; ma non è solo
un problema di quantità perché sono in gioco anche le forme con cui si
presenterà nei prossimi decenni. Certamente non assisteremo a un ritorno a
situazioni già viste, nonostante in molte aree della Terra ci sia un revival di
comunitarismo, cioè di un richiamo a entità collettive a cui fare riferimento e
a cui sottomettersi. Lo vediamo in forme di populismo che evocano però un richiamo
generico a un’idea di nazione con venature razziste e questa è la forma dei
paesi più sviluppati che può assumere anche altri caratteri come in Catalogna.
Lo vediamo resistere in Africa per la frammentazione etnica, in Asia per motivi
religiosi (buddisti e islamici, in Birmania, induisti e islamici in India) e un
po' ovunque dove le radici cosiddette indigene diventano il pretesto per
strappare dei privilegi.
Si tratta in tutti questi casi di
conflitti che possono anche raggiungere punte di violenza non indifferenti, ma
che rientrano nel normale evolvere della Storia dell’umanità, anzi, come
ricorda Pinker nel suo documentatissimo libro “Il declino della violenza”
del 2013 la violenza è andata nettamente diminuendo nel corso dei secoli
raggiungendo il minimo odierno.
Non è però solo una questione di
numeri e di una consistente frammentazione locale, è soprattutto a livello
concettuale che questo percorso “comunitario” non ha sbocchi. Ormai in tutto il
mondo, naturalmente con le inevitabili differenze, assistiamo a un
riconoscimento universale dell’individuo e dei suoi diritti.
Le donne, la cui assenza ha segnato in modo
significativo la Storia, sono sempre più presenti e desiderose di quel
riconoscimento (non solo professionale) che è loro mancato. Non è che le donne siano
migliori, ma è che pretendono di essere riconosciute come individui sia che
decidano di stare in casa e curare i figli sia che vogliano intraprendere
libere professioni sia che scelgano carriere impegnative e prestigiose. Se in
passato ad esempio donne Capo di Stato lo erano perché legate a famiglie
potenti (Bandaranaike a Ceylon, Bhutto in Pakistan, Gandhi in India) oggi assistiamo
a una diffusione che è legata all’impegno e al merito.
La tecnologia ha permesso poi di far saltare molti
passi che una volta erano obbligatori, in particolare la frequenza scolastica:
oggi i cellulari forniscono materiale culturale a chiunque possieda un
telefonino e non ha senso dire che ciò che viene seguito è spazzatura, perché è
sempre stato così anche quando l’alfabetizzazione passava per la scuola. Le
cifre relative a smartphone (non a semplici cellulari) a tal proposito sono
indicative: nei paesi più sviluppati si oscilla tra l’80 e il 90 % della
popolazione, mentre altrove la crescita sembra esponenziale. In India sono il
24 % della popolazione con una previsione di raddoppio nei prossimi anni; in
Nigeria e in Kenya siamo sopra il 40%. Non mi interessa qui fare uno studio
paese per paese, ma la tendenza appare evidente. Uno studio di Deloitte ha
fatto un’indagine su 51.000 persone di 32 paesi e il risultato è che l’82%
possiede uno smartphone.
La globalizzazione ha poi favorito lo spostamento di
persone in misura che non si vedeva da molto tempo, con la conseguenza che
appena si entra in contatto con la realtà dei paesi più liberi se ne assorbe le
caratteristiche: tutti gli immigrati conoscono i loro diritti nei paesi
democratici e ne esigono il rispetto. Certo per molti, e sicuramente all’inizio,
è un approfittarsi di una condizione più vantaggiosa, ma poi questo diventa
qualcosa di “naturale”, soprattutto perché le società aperte favoriscono
l’incontro e il mescolamento. Anche in questo caso, come in quello dei
conflitti, la componente islamica risulta la più restia ad integrarsi e casi in
cui i costumi di origine si scontrano con quelli nuovi sono molto più frequenti
in questa comunità piuttosto che nelle altre, le quali, pur mantenendo una
propria identità, tendono ad accettare il mondo in cui si trovano. Al di là di
questo è difficile pensare, come pure alcuni commentatori e scrittori fanno,
che si affermi il processo inverso, cioè quello della “sottomissione” delle
persone che ospitano. E’ difficile pensarlo, ma non impossibile la sua
realizzazione, ed è per questo che un po' ovunque il dibattito sui rapporti con
l’immigrazione è diventato di primaria importanza. Se pensiamo a un evento
storico tra i più straordinari mai avvenuto, la caduta dell’Impero Romano, la
presenza barbara non vide la fine della civiltà romana, ma al contrario la
diffusione di questa presso i popoli invasori, che non a caso dettero vita a Regni
cosiddetti Romano-barbarici. E la cultura romana sviluppata nel Cristianesimo
si diffuse e sviluppò.
Questo contro i catastrofisti che
comunque hanno avuto il merito di imporre l’argomento.
Dei quattro orizzonti individuati
poco sopra (democrazia, mercato, coesistenza pacifica, individuo) credo che
quello più decisivo e con maggior impronta è il quarto, quello relativo al
ruolo dell’individuo. Sarà anche il più dirompente. Democrazia e mercato si
sono affermati nel corso degli ultimi due secoli, la pace si è protratta nel
complesso oltre quella che i francesi chiamano Les trentes glorieuses
(1945-1975), mentre il riconoscimento della persona e dell’individuo in quanto
tali rappresentano una novità, anche se teoricamente esso ha radici più lunghe
e salde.
Abbiamo visto come sono progredite le
società che hanno riconosciuto un ruolo alla donna, immaginiamoci cosa
succederebbe in quei paesi in cui ancor oggi la donna è sottomessa in forme che
altrove sono state superate da secoli. Immaginiamo cosa può significare in
termini di crescita collettiva la scelta degli individui di certe comunità di riconoscere
in primo luogo il valore della propria persona rispetto a quella del
gruppo-etnia-religione da cui provengono. Immaginiamo cosa può significare per
le singole persone poter scegliere e seguire la propria strada in tutti i
campi, da quello professionale a quello familiare per arrivare a quello
sessuale.
Si tratta di orizzonti, cioè di aree,
che come dice l’etimologia, delimitano la nostra visuale e dunque la direzione
verso la quale decidiamo di incamminarci. Si tratta di orizzonti, non di realtà
né di sogni, e dunque di qualcosa che deve essere raggiunto. L’analisi fatta
sin qui della storia degli ultimi anni, seppur sommaria, ha portato a
individuare quelle quattro prospettive e tra queste ha messo in luce il ruolo
dell’individuo. I flussi portano in quella direzione, ma la Storia ci ha
insegnato a diffidare dei facili entusiasmi: molti ostacoli, molte opposizioni,
molti conflitti, molte conquiste, molti ritorni, insomma il solito vasto e
confuso mescolamento di acque. Non è però inutile aver intravisto tutto ciò.
“L’identità è qualcosa che appartiene
agli individui e non alle collettività…Essere parte di una comunità è un dato
fondamentale nei destini individuali, questo è chiaro. Però in più la
civilizzazione permette all’individuo di esserlo allo stesso tempo e in modi
diversi, in accordo con la propria tradizione, le circostanze, la vocazione
e il libero arbitrio: la nazione è solo uno di questi fattori e, per
molti, meno decisivo rispetto ad altri come la lingua, la religione, la
famiglia, il gruppo etnico, la professione, l’ideologia politica o
l’orientamento sessuale. Una società moderna è composta da cittadini liberi,
vale a dire diversi tra loro, che possono manifestare le proprie differenze di
fronte agli altri senza che questo sopprima la solidarietà dell’insieme…Si può
essere distinti senza essere esclusi o discriminati e dove ognuno può inventare
se stesso creando la propria identità attraverso scelte personali e non imposte
come una camicia di forza dalla collettività…Nonostante ciò (i progressi)
la mentalità tribale e la tentazione collettivista di far scomparire
l’individuo all’interno di una società presumibilmente omogenea e
indifferenziata sono ben lontane dall’esser superate.“ (Mario Vargas Llosa,
Sogno e realtà dell’America Latina. Liberlibri 2019).
APPENDICE
1)
La
giornalista sedicente storica Bettany Hughes ha raccontato “Gli otto giorni che
fecero Roma” visibile su Sky anche in questi giorni. E’ un esempio di
quell’anacronismo e moralismo di cui ho parlato nel Post. E’ una denuncia della
violenza romana fatta a disprezzo della vita umana, un quadro di massacri e
carneficine, di povertà e fatica contrapposte al lusso dei ricchi. E’ un
continuo dichiarare il bene contro il male, il povero contro il ricco, lo
schiavo contro il padrone. Nessuna contestualizzazione, come se nella
storia passata i cattivi-violenti-carnefici fossero stati solo i Romani. Ciò
che era comune a tutti i popoli (dai Persiani ai Cartaginesi, inclusi i
democratici Greci) diventa esclusiva caratteristica romana. Addirittura la
rivolta di Spartacus e degli schiavi è presentata come naturale sbocco
dell’aspirazione universale dell’essere umano alla libertà.
Mentre i libri di scuola cercano di stare
al passo, e in ogni caso poco seguiti dagli studenti, sono le trasmissioni
televisive e cinematografiche a coinvolgere il maggior numero di persone in un
percorso diseducativo completo. Senza contestualizzazione non solo si ha
diseducazione ma si privano le persone di ogni difesa, facendo credere che
basti la parola pace perché la pace si realizzi, lasciandole in balìa di
avvoltoi e squali che non mancano neanche oggi, sebbene il quadro generale sia
molto meno truce di un tempo.
2)
Che
senso ha esaltare la figura di Francesco di Assisi non per i suoi versi o la
sua scelta spirituale, ma per essersi privato degli abiti di ricco borghese e
aver fatto voto di povertà? Che tipo di formazione può avere un giovane che
vive socialmente in un’economia di mercato e a cui viene proposto come
messaggio sociale l’esperienza di San Francesco?
3)
Che
senso ha illustrare i conflitti che popolano la storia dell’umanità come
scontro tra ricchi e poveri o tra buoni e cattivi? Fenomeni come il
giacobinismo diventano appendici, di cui il Terrore è solo un’esagerazione; principi
giusti e pratica errata così come per il comunismo. Il Patto Ribbentrop-Molotov
continua a essere presentato prima di tutto come un patto di non aggressione e
poi come spartizione di un paese indipendente: mettendo al primo posto la
difesa, l’aggressione diventa qualcosa di nebbioso. E della Polonia a nessuno
importa.
Ancora si confondono nazismo e
fascismo, mentre c’è sempre una parola buona per il comunismo, perché ha avuto
milioni di morti nella Seconda Guerra Mondiale o perché le sue erano buone
intenzioni.
L’imperialismo è solo quello delle
nazioni “capitalistiche” mentre per quanto riguarda URSS, Cina, Vietnam Cuba
(cioè paesi socialisti) si sposa il loro linguaggio: favorire la liberazione.
Si considera l’uccisione del Re come
un fatto di progresso tanto che per molti giovani (e adulti) è difficile
pensare a una Monarchia democratica.
La retorica del bene
contro il male è tale che si è arrivati a sostenere il valore del ponte
rispetto al muro, così in astratto, come se il muro di Trump non avesse
illustri precedenti: dal Paradiso (termine che vuol dire recinto) al Vallo di
Adriano alla Muraglia cinese, allo stesso muro iniziato da Clinton.
4)
Che
senso ha criticare a ogni piè sospinto la società in cui viviamo (che si
continua a chiamare capitalismo non per chiarezza, ma per dare un’impronta che
richiama all’esperienza storica del socialismo), senza fare un’analisi del suo
funzionamento, ma partendo sempre da problemi e mettendo in evidenza tutto ciò
che nel linguaggio moralistico rappresenta il male, come le ineguaglianze, la
povertà, lo sfruttamento. La ricchezza diventa tout court un male perché alla
sua base c’è sempre il furto, lo sfruttamento, un comportamento arrivista, dimenticando
che, se casi del genere esistono, essi sono una percentuale minima e che gli
Stati liberaldemocratici hanno creato leggi per punire corrotti e ladri. In
questo modo ci si dimentica dei milioni di persone che faticano
quotidianamente, si sacrificano e così possono permettersi di comprare una casa
o di fare investimenti con cui sperano di migliorare le condizioni della
propria famiglia e nella maggior parte ci riescono, dando un contributo anche
alla crescita e al miglioramento della società.
I limiti dell’economia di mercato e
delle società liberaldemocratiche diventano l’oggetto principale dello studio,
mentre tutte le altre esperienze (a partire dalle cosiddette democrazie
popolari) non hanno la stessa attenzione. Anche in questo caso giovani e adulti
crescono con il microscopio puntato sui problemi della società in cui
viviamo, valutati evidentemente rispetto a un’ipotetica astratta scala di
valori: la disoccupazione è quasi un crimine a cui deve rimediare lo Stato non
una caratteristica sociale che può rappresentare un’opportunità; e così il
demerito è colpa della scuola e della società a cui queste devono rispondere
attraverso “un obbligo formativo”. Lo stesso approccio vale per tutti i campi
della società: i problemi dell’Italia del dopoguerra, i problemi del boom
economico, i problemi del governo.
Il massimo è raggiunto nella
presentazione della Rivoluzione Industriale, soprattutto la prima. L’attenzione
viene concentrata sui “problemi” (ancora una volta) e gli svantaggi creati da
questo fenomeno: l’inquinamento, come se la vita in campagna fosse quella
dell’Arcadia con satiri e ninfe; il lavoro di donne e bambini, come se nella
società servile questi non lavorassero; la crescita di popolazione nelle città,
come se gli abitanti della Roma Antica vivessero tutti in villette unifamiliari
e le case degli agricoltori non fossero modeste e di piccole dimensioni.
5)
Il
sentimento religioso, invece di essere considerato parte dell’esperienza umana,
è sempre presentato come qualcosa di superstizioso, irrazionale e
prescientifico.
La ragione e la scienza (con la S
maiuscola) sono solo quelle che si rifanno a Cartesio, Galileo e Newton,
dimenticandosi tutto quello che c’era stato prima (nel mondo greco, nel mondo
romano e in quello cristiano).
PER CONCLUDERE
La storia viene così ridotta a uno scontro tra le forze del
bene e del male, dove la collocazione in una delle due parti è stabilita
rispetto a valori precostituiti, veri e propri pregiudizi negativi. Si negano
in questo modo aspetti decisivi della ricerca storica, come la
contestualizzazione e il confronto.
La contestualizzazione è fondamentale perché non si deve isolare il fenomeno ma
collocarlo in un quadro che ha dei riferimenti spaziali e temporali concreti:
la conseguenza di quell’approccio è il bisogno di premiare e condannare secondo
valori morali.
Il confronto, l’analisi per somiglianze e differenze, tra diversi
fenomeni storici è fondamentale perché questi devono essere colti nella loro
dinamica, cercando nel passato e introducendo il futuro. Isolare i fenomeni
come fossero delle fotografie nasconde il pregiudizio ideologico: dietro la
foto di una persona morta si può nascondere odio o compassione, ma l’analisi
storica non può ridursi a questo.
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