Le Americhe
Oltre l’indigenismo-nativismo




Da qualche anno negli Stati Uniti succede che nei Campus universitari qualche decina di studenti, confortata da accademici pusillanimi, si scagli contro Colombo il Navigatore nelle forme di monumenti e persino commemorazioni. Via Colombo dall’America, via Colombo il colonialista, l’assassino, lo sfruttatore. La stupidaggine è prima di tutto un fatto culturale, ma esiste anche il gossip, perché la maggior parte dei contestatori è di razza bianca per cui, senza Colombo, non sarebbero mai nati. Come spesso succede la mancanza di cultura sotto forma di moda passa debolmente attraverso l’Atlantico e raggiunge l’Europa,  così anche da noi abbiamo la schiera di “indigenisti” sostenitori dei diritti ad infinitum di chi è indigeno (parola non dispregiativa ma, con la Treccani, “che è nativo ed originario del luogo”). Altri preferiscono usare il termine “nativi”. Così fece 15 anni fa una docente di cui ero tutor e che ci teneva a farmi sapere che lei li chiamava nativi i pellerossa o indiani d’America e mentre lo diceva si sentiva una specie di Giovanna d’Arco.

Lasciamo da parte spunti satirico-polemici ed entriamo nelle dinamiche che, con riferimento ai continenti americani, appartengono alla comunità degli uomini. Parliamo di cultura.

Esistono vari errori nelle concezioni nativiste/indigeniste e la principale riguarda il naturale movimento degli esseri umani organizzati in clan, tribù, parti di popoli, popoli interi. Certo occorre tornare molto indietro nel tempo, ma per fortuna gli studi in questo campo sono andati molto avanti superando l’ambito religioso (Bibbia, Mahabarata ecc.).

Antropologi, biologi, paleontologi oggi concordano sul fatto che la presenza umana sia comparsa in quella regione dell’Africa divisa dalla Rift Valley e che da lì avremmo cominciato una diaspora durata migliaia di anni e che di fatto non si è mai fermata. L’unica differenza tra gli studiosi riguarda la datazione della partenza che dovrebbe aggirarsi intorno ai 250.000 anni fa, mentre risalirebbe a un periodo tra 35000 e 12000 anni l’arrivo nel continente americano dall’Asia.

Le concezioni nativiste/indigeniste presuppongono una visione statica della comunità umana, purtroppo invece la storia è qualcosa di estremamente dinamico e molto accidentato. Quando i primi uomini lasciarono le regioni dell’Africa Orientale non si erano spartite le aree da occupare (come fosse Risiko o Monopoli): erano semplicemente partite, moltiplicandosi e interagendo in continuazione, fermandosi solo dopo molto tempo. E non sempre per sempre. Come sappiamo, i primi uomini erano cacciatori e raccoglitori e in quanto tali nomadi e poi, molto dopo, seminomadi, cioè avevano la necessità di spostarsi in continuazione per trovare cibo vegetale e animale che tendeva ad esaurirsi ogni volta che intervenivano e sfruttavano un determinato territorio. Solo successivamente decisero di fermarsi dando vita a forme diverse di sussistenza, l’agricoltura e l’allevamento: molti rimasero in condizioni di questo tipo, mentre alcune comunità tra queste, grazie ad un’eccedenza nella produzione, dettero vita a strutture sempre più organizzate e complesse. Ne troviamo molte, ma non moltissime, in tutto il mondo, anche in America. Nei libri di storia si ricordano gli Aztechi, i Maya e gli Incas. Questi veri e propri Stati vissero in regioni determinate come Messico, Yucatan-Belize-Guatemala, Perù. E nelle altre regioni del continente americano erano dispersi decine e forse centinaia di popoli, organizzati molto più semplicemente in clan, tribù, piccoli Stati.

Gli studiosi ritengono che i popoli di queste realtà americane provenissero dall’Asia e che occuparono tutte le zone in modo caotico, fermandosi, partendo, fermandosi, tornando indietro, raggiungendo luoghi lontanissimi dal punto di transito che è comunemente identificato nello Stretto di Bering.

E’ dunque probabile che quando si insediarono in America non incontrarono popoli, più o meno grandi, che lì abitavano e per questo non sarebbe sbagliato indicarli come nativi o indigeni. Il punto però è che ci furono molte e molteplici sovrapposizioni, nel senso che ci è difficile indicare tutte quelle popolazioni come native del territorio in cui le trovarono gli Europei. Per fare un esempio di cui abbiamo traccia, nel Messico centrale e meridionale Maya e Aztechi si insediarono in regioni occupate da popoli che lì erano presenti anche da più di 1000 anni, come i Toltechi, gli Olmechi e gli Zapotechi. Lo stesso vale per molti nativi del Nord America, come i Seminole che si installarono in Florida solo nel XVIII secolo. Dunque considerare quei popoli nativi di quelle regioni è completamente sbagliato. Se prendiamo le lingue vediamo lo stesso fenomeno complesso; ad esempio la lingua dei Comanche appartiene alla famiglia Uto-Azteca: duemila chilometri di distanza tra l’area azteca e quella poi popolata dai Comanche. L’uso del concetto di nativo o indigeno per i popoli di origine asiatica che penetrarono e “scoprirono” le Americhe ha senso solo se usiamo espressioni talmente ampie, cioè generiche, che perdono di significato se vogliamo fare un’analisi più dettagliata.

E’ questo il nodo del problema. L’uso generico del termine “nativo” serve solo al lamento e alla recriminazione, cioè ad una strumentalizzazione della Storia. Ancora moralismo e anacronismo.

Il concetto di nativo è come il concetto di post-moderno: non vuol dire nulla o, meglio, non è un concetto; è una semplice parola che fotografa un istante, mentre, lo sappiamo tutti, la vita, e dunque anche la storia, è un film non una fotografia. La fotografia può essere utile, anzi non è da disdegnare, e può essere un punto di partenza, perché è un fermo immagine su cui possiamo fissarci per ore, ma è pur sempre un fermo immagine che dobbiamo imparare a cogliere non in sé ma nel movimento di tutti i fotogrammi.

I nativi, cioè quelli che per primi si sono insediati in un territorio, sono solo un punto nello sviluppo delle società umane. Nativi hanno combattuto contro altri nativi, ne hanno conquistato le terre, ne hanno distrutto le radici, si sono sostituiti a loro oppure li hanno sottomessi o si sono fusi con loro. Col passare del tempo il quadro originario risultava mutato per effetto di distruzioni, contaminazioni, salti, relazioni e organizzazioni più complesse. La storia, come ogni lettore non superficiale sa, è storia di violenze e di conquiste, che non nascono qualche secolo fa, ma rinviano all’origine dell’uomo stesso: possiamo chiamarlo peccato originale o volontà di potenza, ma l’idea rousseauiana che ”l’homme nait bon, mais la societé le déprave” è contraddetta da tutti gli studi sulle nostre origini. Al contrario di ciò che pensava il filosofo ginevrino l’evoluzione delle società umane ha garantito un quadro sempre più pacifico e meno violento                (S. Pinker, Il declino della violenza).

Proprio per le dinamiche sempre più complesse, i nativi rimasti dalla centrifuga della storia non hanno diritti speciali basati sul fatto che per primi avevano occupato un determinato territorio. La storia ha visto popoli affermarsi e uscire di scena: gli Assiri, i Babilonesi, gli Egizi, i Greci, i Romani e tanti altri.

Vediamo alcuni esempi di come non abbia senso storico riconoscere diritti speciali ai così detti nativi.

In America clan, tribù e solo dopo popoli, che occuparono le diverse regioni dal Nord al Sud, si disposero secondo costrizioni frutto di interrelazioni tra di loro: aspetti climatici, forza, organizzazione portarono alcuni gruppi a privilegiare zone più accoglienti, spingendo lontano (molto lontano) o in aree meno favorevoli altri gruppi. Il quadro degli insediamenti non fu mai stabile; non ci fu un’ora X in cui tutti riconobbero il proprio diritto e quello degli altri a occupare una determinata regione. Ricordiamoci poi che si trattava di centinaia di gruppi.

In America abbiamo l’esempio precedente a Colombo della scomparsa di popoli avanzati come Olmechi, Toltechi e Zapotechi nell’America Centrale e il dominio Inca ai danni di altre tribù in Perù. Anche in questi casi riscontriamo una maggiore e più complessa organizzazione dello Stato come base dell’espansione e della conquista. Perché dunque meravigliarsi che Stati moderni come Spagna, Portogallo, Francia, Inghilterra, Olanda potessero avere la meglio sulle organizzazioni incontrate nel Continente? Non solo, ma perché attribuire agli Europei una violenza che è costitutiva, fin dagli albori, della società umana?

L’uso di elementi morali e anacronistici nella riflessione sulla Storia porta in un vicolo cieco e impedisce una analisi seria.



[Quanto detto per l’America vale per tutti i continenti. Qui una breve e veloce rassegna, che verrà sviluppata negli articoli dedicati:

In Africa gli Arabi si imposero sui Berberi nel Nord e i Bantu del golfo di Guinea, scendendo a sud, ebbero la meglio su Ottentotti, Boscimani e Zulu.

In Europa la storia della Grecia è significativa, mentre Germani si imposero ai Celti in Inghilterra.

In Asia i Mongoli scesero a Sud, in Anatolia, nei Carpazi e arrivando persino in Finlandia: il ceppo ugro-finnico appartiene alla grande famiglia uralo-altaica.]



Vediamo ora alcune caratteristiche dell’evoluzione delle società umane nei continenti americani. La prima cosa che salta agli occhi è la profonda differenza tra la parte settentrionale e quella centrale-meridionale. Non c’è dubbio che essa dipenda dalle diverse origini della colonizzazione: anglo-sassone nel nord e iberica nel resto. Ma queste sono cose note: gli Inglesi, e in minor misura i Francesi, colonizzarono la parte orientale del Nord America portando con sé quanto maturato nella madrepatria in termini di libertà, di proprietà e di produzione. La colonizzazione delle regioni occidentali fu poi opera dei coloni che varcarono i confini naturali per arrivare fino al Pacifico. La libertà era parte costitutiva della loro azione e l’ideologia della frontiera che la caratterizzava non era solo un fatto fisico, ma qualcosa di più profondo che corrispondeva allo spirito capitalistico che dava vita al raggiungimento di sempre nuovi e maggiori traguardi; cosa ben diversa dall’atteggiamento di società ancora profondamente feudali o pre-feudali.

Certo la nascita delle tredici colonie e la successiva corsa al Far West non furono fenomeni pacifici ed ecumenici, come nessun movimento di popoli nella storia è mai stato: questo sviluppo fu principalmente uno sviluppo di opportunità che aprirono le porte a gruppi omogenei che lasciavano condizioni difficili in Europa, come gli irlandesi, i tedeschi, gli svedesi, fino agli italiani. La novità rispetto a migrazioni precedenti che avevano coinvolto gli stessi nativi è il fatto che esse varcavano un immenso Oceano e si presentavano organizzate: tutto ciò fu reso possibile dallo sviluppo tecnologico europeo che le permettevano e le garantivano.

La colonizzazione spagnola e portoghese esportò in quelle terre quanto i due popoli iberici erano in grado di esprimere. Le due società in Europa erano caratterizzate da un’economia in gran parte feudale, in cui la nobiltà svolgeva il ruolo predominante, mentre le aree borghesi erano fortemente ridotte. Nonostante questi limiti si trattava di due Stati centralizzati in grado di avere a disposizione una grande quantità di denaro, frutto non tanto di investimenti quanto di tasse, rendite, privilegi e un costante allargamento del territorio. L’esercito rappresentava il fulcro di quegli Stati e così la loro penetrazione nelle Terre Nuove ebbe principalmente quelle caratteristiche. Da un lato stavano le materie prime e in particolare i metalli preziosi di cui quelle regioni godevano come era facile vedere dai sontuosi arredamenti degli edifici regali, dall’altro si trovava un’economia di piantagione (in particolare la canna da zucchero) che aveva bisogno di una grande quantità di manodopera.

Le regioni dell’America centrale e meridionale non videro quello sviluppo economico che si registrava al Nord e i colonizzatori non erano portatori di ideali di libertà, che non conoscevano, ma di uso del potere finalizzato al dominio e al benessere di una ristretta classe dirigente. La mancanza di uno spirito capitalistico non solo impedì una crescita economica, ma determinò un’influenza maggiore del cattolicesimo nel sud rispetto al nord, dove la comunità di coloni era maggiormente legata al protestantesimo. La fede contro le opere, dunque. Ciò significava che nell’America del Sud il confronto con le popolazioni locali fu vissuto in modo più moralistico con fremiti religiosi che videro contrapporsi rigide posizioni ideologiche conservatrici a rigide posizioni ideologiche “umanitarie”: il conflitto fraterno fu aspro tra chi voleva far trionfare le ragioni della Chiesa e chi voleva salvare “i poveri indios”. Le due posizioni, proprio per il loro carattere ideologico, non cambiarono le condizioni dei nativi, ma non cambiarono neppure la presenza coloniale. Spesso si dimentica che ai primi del 1800 iniziò grazie a Simon Bolivar e José de San Martìn la liberazione del Sud America dalla presenza coloniale: addirittura il Brasile per un certo periodo divenne la madre patria del Portogallo. E’ a quell’epoca che risale la nascita di una delle figure tipiche di quel continente: il caudillo, cioè il capo carismatico e autoritario, spesso proveniente dall’esercito, che si fa portavoce degli interessi del popolo contro governanti accusati di sfruttamento. Da Simon Bolivar a Maduro la storia dei paesi sudamericani non ha conosciuto interruzione: diversamente dal principio del “dispotismo illuminato” europeo non si basava su iniziative concrete, ma su dichiarazioni generiche e idealistiche che, come in tutte le rivoluzioni, si sono scontrate con la realtà, generando conflitti su conflitti, guerre civili continue e scontri tra diversi autodenominati caudillos.

Esiste un legame tra gli imperi teocratici colombiani, la gestione centralistica e autoritaria di Spagna e Portogallo e i sistemi autoritari che hanno caratterizzato il ‘900. Esiste un termine con cui biologia e sociologia identificano questo modo di consolidarsi delle forme: rinforzo. Più certi fenomeni proseguono e si diffondono e più si consolidano, adeguandosi ai nuovi tempi e alle nuove mode. E così socialismo e fascismo sono state le forme moderne con cui l’originario sistema autoritario è arrivato fino al secolo scorso. Come la Rivoluzione Russa fu in realtà un colpo di stato, così è successo in America Latina, dove ogni dittatore, da Castro a Peron a Videla, ha chiamato la propria ascesa al potere con l’appellativo positivo di “Rivoluzione”.

E’ abitudine di chi ha mostrato con chiarezza la propria incapacità di governare e favorire lo sviluppo del proprio paese di trovare colpe negli altri, i nemici, i veri responsabili delle proprie difficoltà: succede anche nei rapporti interpersonali, perché meravigliarsi che succeda a livello politico?

Mussolini dava la colpa alle Plutocrazie Occidentali, mentre in America Latina si è sempre accusato gli Stati Uniti di sfruttamento delle risorse e dunque, se quei paesi erano poveri e poco sviluppati, la colpa era solo ed unicamente degli USA. Eppure il sistema politico ed economico è proseguito nelle stesse forme da prima che gli Usa si formassero e divenissero una potenza; non solo ma gli investimenti statunitensi in America Latina ammontano ad appena il 6% dei loro investimenti nel mondo (Harrison 1997).

Monopoli, mercantilismo, autoritarismo non si sono mai fermati: certo qualche sporadico interludio si è verificato, ma si è sempre trattato di piccola cosa. All’inizio del 1900 l’Argentina era uno dei sette paesi più ricchi del mondo e oggi vive, dopo aver fatto bancarotta, crisi a ripetizione. Il Venezuela, paese tra i più ricchi per la presenza del petrolio, è stato distrutto dal socialismo con gravi emergenze alimentari e sanitarie. In generale la presenza dello Stato nell’economia ha disabituato al rischio imprenditoriale, praticamente annullando o riducendo al minimo la borghesia.

Che fossero i Maya o gli Inca, la Corona Spagnola, uno dei tanti dittatori di destra o di sinistra si è perpetuata l’illusione di uno sviluppo dall’alto che ha sempre ridotto il ruolo dell’individuo ai minimi termini: all’inizio del 1800, quando nascevano gli Stati Uniti e quasi contemporaneamente i paesi dell’America Latina raggiungevano l’indipendenza, nel Nord si pubblicavano tremila giornali, in Messico solo tre (Harrison 1997).

Se riflettiamo su questi aspetti, sul rapporto continuità-rottura che evita la semplicistica contrapposizione tra sfruttati e sfruttatori, tra Sud e Nord, tra colonizzatori e colonizzati, si può mettere in evidenza una rete di relazioni che vede coinvolti indios, meticci, creoli, europei nella lotta per il potere.

La lotta per il potere venne fatta come si sapeva fare, cioè come la tradizione li aveva abituati: gruppi di privilegiati contro gruppi di privilegiati (anche nella celebre Rivoluzione messicana), uso della violenza privata e pubblica, piegamento del diritto alle esigenze personali, “panem et circenses” cioè assistenzialismo contro la libera iniziativa, grandi messaggi astratti come popolo libertà nazione fede, invece di iniziative concrete per il miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni. Il lascito di una cultura religiosa profondamente ecumenica si è incorporato nel socialismo dalle stesse caratteristiche: un incontro esclusivamente sudamericano che si è istituzionalizzato nella teologia della liberazione. Ma questa non è stata nient’altro che l’ultimo episodio di numerose rivolte religiose che si sono verificate un po' ovunque, dai cristeros messicani ai canudos brasiliani.

Diversa fu la storia della colonizzazione inglese, olandese e anche francese. Anche qui la rivolta fu fatta per come la sapevano fare, riportando nel nuovo continente le forme e i contenuti tipici dei paesi da cui provenivano. L’unico aspetto ormai superato in Europa era la schiavitù* che invece rimase nelle colonie del sud fino al 1865. Diversamente dalla schiavitù nell’America Latina qui non si contrapponeva allo sviluppo di un’economia di mercato: l’abolizione della schiavitù segnò un salto in avanti con la vittoria delle colonie sull’Inghilterra. La schiavitù nelle colonie spagnole e portoghesi era cosa normale e da lì si diffuse sempre più a Nord, soprattutto in Florida e Georgia, perché lì il clima favoriva il sistema delle piantagioni. Il superamento fu reso possibile dalle continue innovazioni tecnologiche che avevano bisogno di una manodopera libera e quelle furono rese possibili perché, eccetto aree pur importanti, le regioni del Nord America vivevano in un sistema basato sulla libertà.

La storia della colonizzazione europea è estremamente complessa e non può prescindere dai rapporti di forza. I Vichinghi che arrivarono intorno all’anno 1000 furono sconfitti dai nativi e costretti a tornare in Scandinavia; altri popoli nativi si allearono con gli Europei, altri ancora li combatterono aspramente, molti alternarono l’alleanza al combattimento. Non esistevano nativi pacifici né bellicosi, così come non esistevano europei bellicosi o pacifici. I Paesi europei avevano sviluppato nel corso dei secoli una comune visione del diritto, mentre i nativi vivevano al di fuori di norme comuni regolate e i rapporti erano basati su interessi specifici e provvisori.

La guerra per gli Europei rispondeva a una concezione del diritto, consolidato a partire da quello di Roma, su cui essi si riconoscevano e che muterà solo dopo la Prima Guerra Mondiale (v. K. Schmitt: Il nomos della terra). Negli ultimi mille anni gli Europei avevano esteso il campo di intervento in misura sempre maggiore e con tempi crescenti: dallo scontro tra Roma e i Sabini si era passati alle Guerre contro Cartagine ai conflitti che andavano dalla Scandinavia al Mediterraneo e dall’Atlantico agli Urali; anche i tempi si erano dilatati, basti pensare alla guerra dei 100 anni.

La guerra non era sconosciuta ai nativi e anzi il prestigio all’interno della comunità, in genere la tribù, proveniva proprio dalla forza e dal coraggio mostrati in battaglia. Tutto quanto in ogni parte del mondo (in Africa, i Sami in Finlandia…)  caratterizzava la vita in famiglia o in tribù si ritrova nelle manifestazioni della vita comunitaria e intercomunitaria dei nativi. L’enfasi che oggi viene data da componenti del politicamente corretto all’ambientalismo ecologista dei nativi è anacronistico e privo di riferimenti culturali: l’amore per la terra, la sua flora e la sua fauna, rispondeva al loro tipo di vita esclusivamente “local”.

L’atteggiamento rispettoso dell’ambiente che si è fatto largo nelle moderne società capitalistiche nasce all’interno di queste e ha senso solo se ne è la proiezione: chi ne fa una battaglia contro le società moderne facendo riferimento ad esempio ai nativi americani non solo procede in modo ideologico e astratto, ma è anche incapace di produrre soluzioni e miglioramenti.

Lo stesso vale per il binomio pace-guerra.

La storia dei nativi del Nord America è tutt’altro che pacifica e non ha senso parlare di carattere o atteggiamento (sia guerresco sia pacifico) perché esso era legato al contesto, storico e geografico. In un ambiente “local” basta poco perché si creino le più svariate situazioni, e così fu: non solo nativi alleati dei “bianchi” o fusi con gli afro-americani come i Comanche e i Seminole, ma anche tribù appartenenti alla stessa famiglia come gli Irochesi e gli Algonchini (Chippewa, Mohicani, Cheyenne) che furono impegnati contro i Sioux. In un’economia “local” basta un peggioramento delle condizioni climatiche perché un gruppo debba spostarsi entrando così in contatto-scontro con altri gruppi. A maggior ragione quando interessi di gruppi più numerosi e potenti come gli Europei si inseriscono in quelle dinamiche: ancora una volta la morale non c’entra nulla. Ci furono gruppi che preferirono la morte, altri che si ribellarono continuamente, altri che scelsero un accordo: nessuno tradì nessuno e nessuno insegna niente. Non ha senso fermarsi su chi introdusse la pratica dello scalpo e non ha senso da nessuna delle due parti. Talvolta gli accordi furono rispettati mentre altre volte (come nel caso del Far West) la realtà di decine di migliaia di coloni in marcia superò la possibilità di un controllo. Come succede di solito negli eventi che coinvolgono gli uomini.

Il mito del “buon selvaggio” è ancora vivo e mostra un’incapacità profonda di fare i conti con la realtà. Le riflessioni che ho fatto sopra rifuggono sia dal relativismo sia dal fatalismo: il fatto che le cose siano andate in quel modo non significa (e tanto meno giustifica) il fatto che dovessero andare in quel modo. Come scriveva Ricoeur: anche il passato aveva un futuro. Ho cercato al contrario di vedere quegli avvenimenti in termini di flussi e di rete, nel senso che solo una visione semplicistica può ricondurre quegli avvenimenti a un bipolarismo “nativi innocenti vs. europei violenti” o a un bipolarismo “nativi primitivi vs. europei evoluti”. Le critiche alla società contemporanea devono partire, per essere credibili ed efficaci, dall’interno della stessa: il risultato di una visione moralistica porta solo al risentimento da un lato e al senso di colpa dall’altro.

Lo spirito di Colombo e degli altri navigatori è continuato perché è caratteristica essenziale della società in cui viviamo e da cui proveniamo, ed esso vive nell’esplorazione dello spazio, nella ricerca medica, nelle innovazioni che permettono di combattere la fame e di vivere più a lungo e in condizioni migliori rispetto al passato. In questo senso vanno ormai tutti i popoli del pianeta in ogni continente e in questo senso Canada e Stati Uniti d’America hanno dato un contributo decisivo, nati come sono dall’Inghilterra, il cui patrimonio hanno però saputo rinnovare adeguandolo alle mutate situazioni che di volta in volta si sono presentate.

E’ in quei paesi, pur con differenze spesso anche profonde tra di loro, che ancora oggi vive il dibattito più ampio e intenso sulle prospettive e gli orizzonti che ci aspettano, come pure la riflessione sul passato (anche gli studi sul mondo classico) e su ciò che è diverso (religioni, costumi …). A differenza del passato e di alcune realtà sopravvissute, quei paesi ci hanno fatto capire che non è più il tempo del Gran Capo, ma che l’evoluzione di una società è garantita dall’intenso e variopinto interconnettersi dei soggetti che la compongono, siano essi gruppi, enti o istituzioni.

Che ci sia Trump negli USA e Trudeau in Canada o viceversa un liberal negli USA e un conservatore in Canada non cambia la sostanza, cioè il senso di quanto acquisito finora a partire dalla nascita di questi due grandi Paesi. Oggi ci sono grandi differenze tra i due leader, ma si tratta di differenze tattiche, mentre la difesa dei valori della democrazia occidentale, strategia e vision, li vede accomunati, come è successo per l’intervento in Medio Oriente contro l’ISIS quando il Canada ha dato il suo importante contributo.

Da un lato abbiamo un Canada che ha mantenuto stretti legami con l’Inghilterra da cui ha importato tutte quelle strutture che ne garantiscono l’essenza democratica e liberale, dall’altro abbiamo gli Stati Uniti che sono nati in contrasto con l’Inghilterra proprio su uno dei principi fondanti le moderne democrazie: No taxation without representation.

I due Stati sono nati condividendo un quadro di riferimento all’interno del quale si sono costruiti e quel quadro di riferimento partiva dai punti più alti sviluppati dalla democrazia liberale, che aveva incorporato quanto elaborato dalla Rivoluzione Inglese e dall’Illuminismo. Così hanno potuto procedere a riforme che hanno migliorato le condizioni di vita delle persone, protetto l’ambiente, garantito un libero confronto di idee e superato, in modo reale non ideologico, elementi in contrasto con una democrazia liberale, in particolare le discriminazioni razziali. E saputo integrare milioni di emigrati provenienti da tutte le parti del mondo, con lingue religioni e costumi diversi. E’ il famoso melting pot che da più di cento anni non cessa di crescere, rimescolarsi e ancora crescere. Nonostante le crisi che hanno accompagnato l’economia mondiale in questi ultimi 100 anni, gli Stati Uniti rimangono il punto di riferimento per tutti coloro che, da ogni parte del mondo, vogliono cambiare vita e dare una prospettiva ai loro figli: dopo gli Europei è stata la volta degli asiatici, compresi i vietnamiti, reduci dalla guerra ma in fuga dagli orrori vietcong, degli africani e dei latino-americani.

Lo sviluppo dei paesi del Nord America e le difficoltà che ancora oggi incontrano gli Stati del Sud, nonostante importanti miglioramenti, mostrano come la Storia non sia solo passato, ma quanto il passato lasci tracce quasi indelebili con cui occorre fare i conti. Come un individuo non può costruire il suo futuro rimuovendo il proprio passato e facendo finta di potersi ricreare ex-novo, così ogni popolo e ogni Stato non può pensare al proprio futuro senza scoprire nel proprio corpo attuale le malattie non curate un tempo: averle ignorate le ha perpetuate e aggravate.

L’eredità di Spagna e Portogallo contro i lasciti dell’Inghilterra.

La ricchezza basata sulla rendita contro la produzione di ricchezza grazie al profitto.

Il moralismo e astratte parole d’ordine contro il pragmatismo e un impegno quotidiano sulle concrete esigenze.

Un dispotismo (caudillismo) accompagnato da masse indifferenziate contro una democrazia che valorizza la partecipazione degli individui.

Un dispotismo (caudillismo) autoritario contro la separazione dei poteri.

Il pensiero unico come verità assoluta (politica, religiosa, economica) contro la molteplicità di verità in continuo confronto.



*La schiavitù è appena toccata in queste pagine in quanto essa sarà il tema di un intero capitolo, il penultimo, di queste lezioni.

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