La schiavitù
Ricostruzione del fenomeno oltre moralismo e anacronismo




Lo storico  Herbert Klein scriveBenché la maggior parte della ricerca in merito abbia invalidato le convinzioni tradizionali sulla tratta atlantica, queste ultime rivelano ancora una forza enorme, e continuano a essere ripetute nei testi normalmente destinati alle scuole primarie e secondarie”.

E’ giusto chiedersi perché abbia deciso di inserire un articolo sul tema della schiavitù proprio sul finire di queste lezioni di storia che abbracciano un millennio, tenuto conto soprattutto del fatto che il fenomeno è sostanzialmente scomparso. Rimane riconosciuto in alcune aree marginali del mondo islamico come la Mauritania, ma nel complesso il fenomeno è stato estirpato e soprattutto è considerato illegale ovunque. Come ho scritto altrove, anche a proposito della globalizzazione, esiste una tendenza culturale a non vedere i cambiamenti che la società umana ha realizzato; così questa tendenza vede la schiavitù risorgere in forme nuove.
E così la fine della schiavitù, che è una conquista dell’umanità, viene svilita e annacquata: le forme nuove che vengono evidenziate servono solo a ignorare la complessità delle azioni e del pensare, la difficoltà e il coraggio che si sono avuti per superare una condizione che solo oggi ci appare antitetica all’uomo, ma che per millenni e ovunque è stata considerata pratica e condizione normale e pienamente umana. Come il nutrirsi e il dormire. Che ci siano forme nuove di oppressione è un dato di fatto, così come un dato di fatto è la fine di quella che abbiamo sempre chiamato “schiavitù”. Perché non esultare per questa fine? Perché voler stabilire una continuità citando altre forme di oppressione, quando si dovrebbe sapere che l’oppressione è condizione dell’essere umano?
Chi conosce la storia deve sapere che essa è caratterizzata principalmente da guerre e violenze e che i periodi di pace sono sempre stati eccezionali, momentanei e su cui fare poco affidamento. Come ricorda uno studioso importante, Hillman, la stessa parola “pace” esiste non per sé, ma come “negazione della guerra”, che è l’unica parola che esprime un concetto. La quantità di libri che guardano in faccia la realtà è tale che il rifiuto della guerra è cosa recente, molto recente. La storia ha un suo percorso che è fatto di personaggi ed avvenimenti che sono quello che sono e che dobbiamo avere il coraggio di analizzare senza finzioni. Violenza, oppressione, guerre sono l’anima della storia, una sua costante e considerarli come un’eccezione ci impedisce di apportare quei miglioramenti che in genere tutti auspichiamo. Non a caso i Romani dicevano: “si vis pacem, para bellum”, se vuoi la pace sii pronto a combattere. Oggi purtroppo si è perso questo spirito di realtà e si preferisce sciacquarsi la bocca con parole positive come “amore, solidarietà, uguaglianza, pace” e la realtà va per conto proprio, riproducendo quei meccanismi che dovremmo conoscere, ma che ci rifiutiamo di considerare “normali”.
Poiché la realtà non combacia con quei principi, allora, invece di mettere in discussione i principi, si cerca nella realtà qualche elemento che possa tornare utile; si va alla ricerca di un nemico, si prendono due fatti e li si collegano in un rapporto di causa-effetto come se si trattasse della fisica newtoniana, si dà sfogo di moralismo come se la storia avesse una morale, ci si immerge nell’anacronismo come se la storia fosse un ammasso omogeneo e atemporale.
Naturalmente da un punto di vista individuale ognuno è libero di avere le proprie idee e i propri principi, etici morali religiosi; a livello collettivo, e soprattutto se la nostra riflessione vuole coinvolgere la Storia, occorre invece saper distinguere e non confondere i vari aspetti che ci troviamo ad osservare. Purtroppo, grazie ai social e a una scuola lasciata a se stessa, ognuno ha la pretesa di parlare di tutto e esige il riconoscimento e il rispetto della propria opinione per il solo fatto di averla espressa. “Uno vale uno” è diventato un mantra. Quando questo rimane a livello di discussione da bar, del tipo “quel rigore non c’era”, non è un grosso problema, che diventa tale invece quando occupa spazi più ampi, si diffonde nelle scuole, nei giornali e diventa parte della riflessione accademica.
Come ho detto più volte anacronismo e moralismo.
Il tema della schiavitù ci mette alla prova nel riconoscere le dinamiche della storia in modo complesso, anche se l’opinione corrente ha un suo punto di vista che ha saputo imporsi solo grazie a motivazioni semplici, che sfruttano la componente morale, tipica di ogni essere umano, ma soprattutto forte e fondante in Occidente per il ruolo del Cristianesimo. Certe volte appare strano che si sia potuto sviluppare un tema come la schiavitù solo a partire da pregiudizi e stereotipi, isolando singoli aspetti e trasformandoli nell’atto di accusa definitivo. Eppure la parola “Storia” vuol dire semplicemente “racconto” e, come sappiamo tutti, un racconto è tale solo se ne seguiamo l’evoluzione che deve tener conto di tutti gli elementi in gioco.
Per affrontare il tema della schiavitù in modo storico e non moralistico occorre partire da molto lontano. Nell’analisi dell’evoluzione sociale K. Marx, pur con lo schematismo che lo caratterizza, riconosce che la prima società umana è stata “la società schiavista” e riconosce questa caratteristica come un dato comune: nonostante, come è noto, egli volesse il superamento del capitalismo non attribuisce la schiavitù alla società capitalistica e neppure a quell’Occidente che della società capitalistica era stato la levatrice. Al contrario Marx riconosce che per la prima volta, nella storia dell’umanità, il capitalismo aveva reso i lavoratori “liberi”. Cito Marx non solo perché è sicuramente più storico che economista e filosofo, ma perché, in quanto dettato dall’esigenza di superare il capitalismo, è su questo tema una voce affidabile.
Dunque la schiavitù non è una stortura, ma un solido ramo della storia umana. Che riscontriamo ovunque. Una fase di sviluppo, che dal punto di vista della complessità si caratterizza per relazioni semplici. Nell’evoluzione umana, che è il passaggio da società meno complesse a società più complesse, il sistema schiavistico si colloca in basso. Come tutti gli eventi storici, anche quelli di minore complessità non sono lineari e questo vuol dire che non esiste una data x in cui una determinata società cessa di essere schiavista; lo stesso vale per la durata e le forme con cui il fenomeno si manifesta e si diffonde fino a scomparire.
I libri di storia, e dunque l’opinione pubblica, si soffermano e insistono per interi capitoli sul Commercio triangolare e la Tratta dei neri, ingenerando l’idea che essa sia un fenomeno originale ed esclusivo; non solo, ma esso viene presentato come se fosse di marca europea e occidentale in genere (doppia infamia) e qualcuno più audace ci mette di mezzo anche il Cristianesimo (tripla infamia). Ora non c’è dubbio che il fenomeno su cui si insiste sia stato di enorme portata, soprattutto da un punto di vista etnografico, visto che gran parte della popolazione delle Americhe ha antenati provenienti dall’Africa, ma questo è un fenomeno che non può essere isolato e tenuto fuori dalle forme di spostamento di popoli che spesso non furono volontari. Molti europei che popolarono l’America e l’Australia vi furono costretti o dalle circostanze sfavorevoli o dalle decisioni della Giustizia. Questo per quanto ci riguarda, ma operazioni simili hanno riguardato praticamente tutti i continenti e moltissimi popoli: nonostante gli studi in questo campo siano progrediti notevolmente, rimane il vero e proprio pregiudizio moralistico che tende a colpevolizzare l’Occidente. Non solo, ma, come vedremo, con riferimento al fenomeno della Tratta e del Commercio triangolare, il coinvolgimento arabo islamico fu non solo anteriore ma determinante.
Occorre tralasciare le interpretazioni astratte che riconducono alla schiavitù la fede e la fedeltà a Dio (quale che sia) e rimaniamo sul piano propriamente storico. Lo schiavo è, secondo la celebre sintesi di M. T. Varrone, letterato romano del I° sec. a.C., “uno strumento parlante”, contrapposto agli animali “strumenti semiparlanti” e agli oggetti di lavoro “strumenti muti”. Da un punto di vista socio-economico è dunque uno strumento che ha le caratteristiche di ogni altro strumento, compreso, in certi casi, anche l’interesse del padrone a trattarlo bene, perché non ha senso danneggiare uno strumento che ci serve: naturalmente ciò dipendeva da molti fattori come il rapporto tra domanda e offerta.
Il mondo greco inaugurò la democrazia che escludeva dalla cittadinanza anche gli schiavi (oltre alle donne e agli stranieri); i Romani ebbero schiavi che però in certi casi potevano essere liberati, gli Arabi avevano una società schiavista e lo stesso Maometto possedeva schiavi. Non c’è dubbio che la schiavitù cominciò a subire colpi grazie al Cristianesimo, e nell’Europa Medievale si può dire che essa era scomparsa: merito di un’etica basata sull’uguaglianza e sulla compassione, ma anche sulle nuove forze produttive che si stavano aprendo. Il Cristianesimo si interrogò sulla legittimità o meno della schiavitù, cosa che non avvenne nel mondo arabo: il fatto che Gesù fosse Dio e uomo permetteva di guardare l’uomo in modo diverso, mentre nell’islamismo Maometto è solo uomo e come tale garante della sottomissione completa a Dio (Islam vuol dire sottomissione). Inoltre il Corano, che non può essere interpretato, legittima la schiavitù. Nonostante ciò i paesi musulmani, spesso in ritardo, hanno proclamato il carattere non legittimo della schiavitù.
L’interesse per l’argomento non riguarda tanto il fenomeno in sé che non esiste più, ma la lettura che ne viene fatta e che continua ad essere antioccidentale. Essa compromette una seria analisi storica che dal tema della schiavitù si estende ad altri aspetti e per fare questo ha bisogno di due strumenti che nulla hanno a che fare con la storia, ma che appartengono all’ideologia: il moralismo e l’anacronismo.
Il periodo che precede la tratta atlantica è un periodo in cui l’Europa cristiana ha ripudiato la schiavitù, mentre il mondo musulmano la incrementa diffondendola anche nel continente indiano a partire dalla sua conquista, che raggiunse la massima espansione con la dinastia Moghul. Nel resto del mondo, Estremo Oriente e Imperi precolombiani, la schiavitù era comune, essenziale e non suscitava interrogativi.

Tutti hanno studiato a scuola il “commercio triangolare” e la cosiddetta “tratta atlantica degli schiavi” o semplicemente “tratta dei neri” che ha visto come protagonisti i paesi occidentali, ma quasi nessuno conosce l’esistenza di altre due precedenti tratte di schiavi, simili per caratteristiche e significato: la “tratta orientale” e la “tratta africana”. Il motivo di questa forbice di conoscenza è semplice e riguarda la quasi totalità degli avvenimenti del mondo: conosciamo molto della tratta occidentale perché l’Occidente non si è mai nascosto e ha sempre considerato come sua essenza la ricerca della verità e lo sviluppo della conoscenza. L’Occidente è cosciente che la storia non è immutabile e che è importante tornare sui propri passi, conoscerli meglio e più approfonditamente, correggere la prospettiva e procedere al cambiamento, se necessario, per costruire una società migliore. In Oriente e in Africa gli studi sui loro mondi sono pochi e spesso svolti per realizzare delle giustificazioni e obbedire a valori culturali o religiosi visti come immutabili. Non mancano studi di qualità, ma molto di quello si conosce non si deve a chi in quel mondo è nato e a quel mondo fa riferimento. “La tratta atlantica, la più famosa e la meno travisata delle tratte d’esportazione, si sviluppa soltanto nel XVII secolo, mille anni dopo il fiorire delle tratte orientali che, più precoci e più durature, alimentarono il mondo musulmano” (La tratta degli schiavi di O. Pétré-Grenouilleau, Ed. Il Mulino 2004, pag. 17)
Fino alla diffusione della schiavitù ad opera di Arabi e Turchi il fenomeno era abbastanza circoscritto: sia in Grecia sia a Roma sia in Cina; lo stesso dicasi per i Regni Africani. Le cose cambiarono con l’espansione araba che portò alla conquista e islamizzazione dell’Africa del Nord e di gran parte dell’Oriente Medio mettendo in contatto Ovest ed Est in un’epoca in cui i commerci si erano notevolmente sviluppati. In quel periodo, mentre l’Europa si stava riorganizzando e muovendo soprattutto al proprio interno, gli Arabi prima e i Turchi poi accompagnavano commercio e religione dall’Oceano Atlantico all’Oceano Indiano. La vera espansione europea negli altri continenti inizia solo nella seconda metà del XV secolo e si affermerà nel secolo XVII non più cedendo il predominio. Nei secoli del dominio arabo, o meglio islamico, la tratta orientale dei neri raggiunse cifre importanti rifornendosi anche alla preesistente tratta africana, e soprattutto sub-sahariana.
Come ampiamente documentato questa tratta risale all’VIII secolo e illustra una rete ampia e fitta: essa iniziava nelle coste del Mediterraneo (dall’Egitto al Marocco numerosi erano i punti di partenza e ritorno) scendendo a sud e investendo tutta la fascia che va dall’attuale Senegal (ex Regno del Mali) fino al Corno d’Africa spingendosi ancora più a Sud lungo le coste degli attuali Kenya e Tanzania. Importanti porti erano Zanzibar per la penisola arabica, Mogadiscio per l’India e Suakim per l’Arabia.
Due link fra le tante cartine che illustrano il fenomeno:
Non è un problema morale, ma storico: i musulmani crearono la prima tratta di schiavi neri su scala planetaria solo perché i loro commerci erano talmente estesi che avevano bisogno di un approvvigionamento regolare di manodopera a basso costo. Manodopera che trovarono facilmente in Africa dove avevano già stabilito rotte carovaniere lavorando insieme ai mercanti africani.
E’ così che arriviamo alla terza tratta di cui poco si parla, sempre a causa di una visione ideologica e riguarda proprio gli africani molti dei quali non furono vittime ma responsabili di avviare il processo. “Il modo di produzione di prigionieri …era gestito soprattutto da africani…essi provenivano da razzie e catture operate in guerra e dall’applicazione di regole del diritto consuetudinario (sanzioni con la riduzione in schiavitù)” (op. cit. pag.74). “In Africa furono i poteri radicati sul posto a produrre prigionieri e furono poi questi stessi poteri, attraverso le élite mercantili locali, a regolamentare e organizzare le operazioni di vendita” (op. cit. pag. 75).
I motivi perché questo poteva avvenire erano diversi.
1)Uno di questi motivi riguarda l’assenza di un sentimento di appartenenza a una stessa comunità “africana” e in effetti termini come Africa e africani avevano un senso solo per gli europei. Questo è tanto vero che persino oggi non esiste un sentimento di riconoscimento che sia diverso dalla propria etnia e spesso anche solo dalla propria tribù: una drammatica testimonianza di cosa voglia dire questo è il sanguinoso e recente conflitto tra Hutu e Tutsi.
2)C’è poi un sistema che ha radici solidissime e presenta un evidente vantaggio economico. Di fatto il potere delle élite locali, data la frammentazione etnica, si basava sul riconoscimento delle popolazioni, il cui sfruttamento era indubbiamente minore se si rivolgeva all’esterno, verso tribù o etnie diverse. “I vicini erano dunque le prede e le vittime designate, soprattutto quando apparivano più deboli, a causa di una minore complessità delle loro strutture sociali, politiche e militari” (op. cit. pag. 81). Prendendo in considerazione le regioni dell’Africa Occidentale più coinvolte nella tratta atlantica, quelle tra Senegal e Camerun, è qui che ha fatto la sua comparsa il mercato schiavistico, in relazione alla nascita di veri e propri Stati, il Ghana, il Mali, il Songhai: le testimonianze sono evidenti, tra VII e XI secolo per Ghana, tra XIII e XVII  per Mali e tra XV e XVII per Songhai. Le scoperte archeologiche se da un lato mostrano questo aspetto, dall’altro lo escludono per le organizzazioni sociali preislamiche: “L’islamizzazione delle élite permise alle stesse di legittimare la riduzione in schiavitù delle popolazioni limitrofe, dichiarate pagane” (op. cit. pag. 84).
Non ci sono colpe né buoni o cattivi, ma intreccio di flussi che talvolta si fortificano e subiscono un’accelerazione: l’estensione del commercio islamico all’Africa trasse vantaggio dalla presenza di reti commerciali indigene e queste reti si rafforzarono grazie alla presenza di una società, quella islamica, che già praticava il commercio di schiavi su larga scala.
E’ a questo punto che si inseriscono gli Europei e si afferma la Tratta atlantica, di cui sappiamo tutto visto che a scuola e nei mass media si parla solo di questa.
Un altro luogo comune riguarda la perdita demografica del continente africano in seguito alla Tratta. Vediamo meglio.
E’ solo dagli studi di Curtin del 1969 e di Eltis del 2001 che il tema demografico assume una credibilità storica e statistica, ponendo fine a quello che veniva chiamato “balletto delle cifre”. Ovviamente cifre più precise permettono una riflessione più puntuale, anche se importante rimane sempre un approccio complesso. Gli ordini di grandezza di cui oggi disponiamo sono generalmente accettati.
Vediamo le cifre.
Tra il 1519 e il 1867 gli africani sbarcati al di là dell’Atlantico sarebbero 9.599.000 e diventerebbero 11.062.000 includendo le persone morte nel viaggio. Aggiungendo i 17.000.000 deportati nell’insieme delle tratte orientali arriviamo a un totale di 28 milioni. Qual è stato dunque l’impatto delle tratte sulla popolazione complessiva dell’Africa? Diversi sono i metodi di approccio, ma preferibile è quello sistemico che cerca di contestualizzare l’andamento demografico all’ambiente, ecologico, sociale, culturale e politico. Non mi dilungherò su questi aspetti che trovano ampia bibliografia. Citerò alcuni aspetti che, seppur non decisivi, mettono in evidenza elementi in genere trascurati dai luoghi comuni correnti. Li citerò lasciandoli in sospeso alla curiosità del lettore veramente interessato.
Secondo alcuni studiosi viene avanzata “l’ipotesi che, a livello demografico, la tratta avesse un effetto minore delle siccità, delle epidemie, e delle carestie” (op. cit. pag.376).
Secondo altri va presa in considerazione l’esigenza dei capi africani di sbarazzarsi dei prigionieri di guerra più ribelli.
Altri parlano delle mancate nascite dovute all’esportazione di così tanti uomini, principalmente maschi; a questa tesi qualcuno si oppone mettendo in evidenza che questo aspetto non è considerevole a causa del carattere poligamico delle società africane, grazie al quale la fertilità sarebbe risultata praticamente immutata.
C’è poi chi sottolinea il diverso impatto regionale su intere aree che non sono state toccate dalle tratte, mentre i paesi Ibo, Yoruba, Efik, i più colpiti dalle tratte, sono rimasti paesi dalla densità eccezionalmente alta.
Rimane dunque un terreno di indagine da sviluppare, ma è facilmente discutibile sia l’approccio minimalista sia quello massimalista, perché entrambi basati o su dati precisi, ma locali, o su astrazioni.
Voglio qui disegnare un quadro che pone il dibattito su un piano ancora più complesso. Vediamone gli snodi.
1)La schiavitù era già fondamentale per l’ordine sociale, politico ed economico di zone situate a nord della savana, in Etiopia e sulla costa orientale africana, molti secoli prima del Seicento (Lovejoy);
2)L’economia di molte aree del continente africano prima della tratta atlantica non era di semplice sussistenza, ma si basava su forme di commercio non occasionali e di discrete dimensioni. Questo fenomeno, come altrove, aveva favorito la nascita e il rafforzamento di veri e propri Stati con eserciti di soldati: Stati non tribù. Vengono individuate da Thornton 150 unità politiche sovrane e 4 vaste regioni diplomatiche e militari (Guinea superiore, Guinea inferiore, Angola, Africa centro-occidentale;
3)L’influenza europea in questa economia e su questi Stati rimase fino al XIX secolo marginale: solo verso il 1860 i prodotti europei cominciarono ad avere un certo impatto in Africa;
4)Il crollo del prezzo degli schiavi, l’influenza della campagna abolizionista, nuove forme organizzative e produttive, fenomeni avvenuti tra la fine del 1700 e la prima metà del 1800, mandarono in crisi quegli Stati, favorendo l’intervento europeo in termini di colonialismo.
In tutto ciò manca il nome dell’assassino, semplicemente perché la Storia non è un libro giallo. Ormai la ricerca storica ha chiarito che occorre abbandonare il rapporto causa-effetto o anche cause-effetti e che invece dobbiamo seguire i diversi flussi e le diverse relazioni, cosa non facile, ma necessaria per non cadere nel semplicismo ideologico e moralista. Le tratte degli schiavi neri colpiscono per la dimensione e la durata, ma non sono niente di unico e anzi sono coerenti con la storia generale dell’umanità. Purtroppo la ricerca di colpevoli su cui scaricare le proprie responsabilità nasconde la cattiva coscienza: la storia non è una lavagna in cui scrivere da una parte i nomi dei buoni e dall’altra quella dei cattivi. Troppi luoghi comuni continuano a circolare nonostante gli studi abbiano prodotto enorme materiale di pregio: lo abbiamo visto nel massacro del 1994 in Ruanda che ha coinvolto Hutu e Tutsi e che alcuni intellettuali attribuivano ai “colonialisti occidentali”. Sarebbe giunto il momento di iniziare una riflessione seria: non si creda che ciò riguarda solo gli esperti, perché troppo spesso è proprio la conoscenza media di una società che fa la differenza.
Nel Museo Livingstone in Zambia (un piccolo museo dedicato principalmente alla storia dello Zambia) c’è un pannello tridimensionale in cui sono rappresentati sei schiavi neri incatenati e un mercante arabo che li incita, ci sono due bambini e due donne. Trattandosi di un piccolo museo la scena ha evidentemente un significato importante. Rappresentazione figurativa di questo articolo.
Ho voluto dedicare un intero capitolo a questo tema perché esemplare nel modo di affrontare la Storia, non certo per giustificare ma per com-prendere, cioè prendere dentro di noi il senso degli avvenimenti, senza dimenticare le nostre origini, ma sapendo che non possiamo fermarci a quelle.
Esso è esemplare anche perché mostra la difficoltà che ognuno di noi, giovane o vecchio, maschio o femmina, Occidentale o Africano ecc., ha nel rapportarsi alla realtà, che sia individuale o sociale. Quella difficoltà erige muri con i quali cerchiamo di proteggerci, muri fatti di silenzio rimozione e menzogne. Per fortuna da 150 anni quei muri hanno cominciato a sgretolarsi e chi prosegue nel nascondersi dietro quei muri è ormai condannato: il Re è sempre più nudo.
Noi in Occidente non siamo perfetti, ma per fortuna ci troviamo nel punto di osservazione privilegiato, perché anche in passato non abbiamo mai rinunciato, nel Caos che è la Storia, a fare i conti con la realtà e con noi stessi.
Come scrive R. Stark in uno dei suoi studi: “(A coloro che parlano di imperialismo culturale dell’Occidente, per coerenza dovrebbero) sentirsi a proprio agio di fronte a crimini contro le donne come la fasciatura dei piedi, la circoncisione femminile, la pratica del sati (che obbligava le vedove a morire tra le fiamme sulla pira funebre del marito) e la lapidazione delle vittime di stupro in quanto colpevoli del loro adulterio. Richiede anche di ammettere che la tirannia è auspicabile tanto quanto la democrazia e che la schiavitù dovrebbe essere tollerata se in linea con le tradizioni locali. Analogamente impone di considerare l’alto tasso di mortalità infantile, la perdita dei denti all’inizio dell’età matura e la castrazione di ragazzini, aspetti validi delle culture locali, da proteggere insieme all’analfabetismo... Non c’è dubbio che la modernità occidentale abbia i suoi limiti e i suoi malcontenti. Eppure, è di gran lunga migliore delle alternative di cui siamo a conoscenza, non solo, o persino soprattutto, a causa della sua tecnologia d’avanguardia, ma anche del suo fondamentale impegno per promuovere la libertà, la ragione e la dignità umana”( La vittoria dell’Occidente, Ed. Lindau, 2014).

P.S. Sul razzismo

E’ importante notare come furono i musulmani i primi a stigmatizzare il colore della pelle identificandolo come un necessario attributo della schiavitù.
(1)La famosa maledizione di Noè sul più giovane dei figli di Cam, Canaan (sarebbe stato per i suoi fratelli lo schiavo degli schiavi), di cui parla la Bibbia fu usata in Europa soprattutto per indicare ora questo ora quello senza riferimenti a colore o razza. Essa invece divenne un punto fermo nel mondo islamico per giustificare la schiavitù di persone nere.
(2)Il grande studioso Lewis ricorda che la centralità degli arabi nel mondo da loro dominato li portò ad attribuire “una connotazione di inferiorità alle pelli scure e più precisamente nere”. Per Pétré-Grenouilleau questo giudizio negativo non era ancora razzismo: “A spingere gli arabi (in questa direzione) fu proprio la tratta dei neri che creò negli abitanti dell’impero l’abitudine di vedere degli uomini di colore asserviti, con la progressiva assimilazione fra la pelle nera e la figura dello schiavo” (op. cit. pag. 29). A meglio chiarire, riporta un brano importante di Lewis: “Già durante il Medioevo divenne abituale impiegare termini differenti per indicare gli schiavi bianchi e gli schiavi neri. Questi ultimi erano chiamati ‘abd. In parecchi dialetti arabi, il termine finì per indicare l’uomo nero in genere, che fosse libero o schiavo.”

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