La schiavitù
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Ricostruzione del fenomeno oltre
moralismo e anacronismo
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Lo
storico Herbert Klein scrive “Benché
la maggior parte della ricerca in merito abbia invalidato le convinzioni
tradizionali sulla tratta atlantica, queste ultime rivelano ancora una forza
enorme, e continuano a essere ripetute nei testi normalmente destinati alle
scuole primarie e secondarie”.
E’ giusto chiedersi perché abbia deciso di
inserire un articolo sul tema della schiavitù proprio sul finire di queste
lezioni di storia che abbracciano un millennio, tenuto conto soprattutto del
fatto che il fenomeno è sostanzialmente scomparso. Rimane riconosciuto in alcune
aree marginali del mondo islamico come la Mauritania, ma nel complesso il
fenomeno è stato estirpato e soprattutto è considerato illegale ovunque. Come
ho scritto altrove, anche a proposito della globalizzazione, esiste una
tendenza culturale a non vedere i cambiamenti che la società umana ha
realizzato; così questa tendenza vede la schiavitù risorgere in forme nuove.
E così la fine della schiavitù, che è una
conquista dell’umanità, viene svilita e annacquata: le forme nuove che vengono
evidenziate servono solo a ignorare la complessità delle azioni e del pensare,
la difficoltà e il coraggio che si sono avuti per superare una condizione che
solo oggi ci appare antitetica all’uomo, ma che per millenni e ovunque è stata
considerata pratica e condizione normale e pienamente umana. Come il nutrirsi e
il dormire. Che ci siano forme nuove di oppressione è un dato di fatto, così
come un dato di fatto è la fine di quella che abbiamo sempre chiamato
“schiavitù”. Perché non esultare per questa fine? Perché voler stabilire una
continuità citando altre forme di oppressione, quando si dovrebbe sapere che
l’oppressione è condizione dell’essere umano?
Chi conosce la storia deve sapere che essa è
caratterizzata principalmente da guerre e violenze e che i periodi di pace sono
sempre stati eccezionali, momentanei e su cui fare poco affidamento. Come
ricorda uno studioso importante, Hillman, la stessa parola “pace” esiste non
per sé, ma come “negazione della guerra”, che è l’unica parola che esprime un
concetto. La quantità di libri che guardano in faccia la realtà è tale che il
rifiuto della guerra è cosa recente, molto recente. La storia ha un suo
percorso che è fatto di personaggi ed avvenimenti che sono quello che sono e
che dobbiamo avere il coraggio di analizzare senza finzioni. Violenza,
oppressione, guerre sono l’anima della storia, una sua costante e considerarli
come un’eccezione ci impedisce di apportare quei miglioramenti che in genere
tutti auspichiamo. Non a caso i Romani dicevano: “si vis pacem, para
bellum”, se vuoi la pace sii pronto a combattere. Oggi purtroppo si è perso
questo spirito di realtà e si preferisce sciacquarsi la bocca con parole
positive come “amore, solidarietà, uguaglianza, pace” e la realtà va per conto
proprio, riproducendo quei meccanismi che dovremmo conoscere, ma che ci
rifiutiamo di considerare “normali”.
Poiché la realtà non combacia con quei
principi, allora, invece di mettere in discussione i principi, si cerca nella
realtà qualche elemento che possa tornare utile; si va alla ricerca di un
nemico, si prendono due fatti e li si collegano in un rapporto di causa-effetto
come se si trattasse della fisica newtoniana, si dà sfogo di moralismo come se
la storia avesse una morale, ci si immerge nell’anacronismo come se la storia
fosse un ammasso omogeneo e atemporale.
Naturalmente da un punto di vista individuale
ognuno è libero di avere le proprie idee e i propri principi, etici morali
religiosi; a livello collettivo, e soprattutto se la nostra riflessione vuole
coinvolgere la Storia, occorre invece saper distinguere e non confondere i vari
aspetti che ci troviamo ad osservare. Purtroppo, grazie ai social e a una
scuola lasciata a se stessa, ognuno ha la pretesa di parlare di tutto e esige
il riconoscimento e il rispetto della propria opinione per il solo fatto di
averla espressa. “Uno vale uno” è diventato un mantra. Quando questo rimane a
livello di discussione da bar, del tipo “quel rigore non c’era”, non è un
grosso problema, che diventa tale invece quando occupa spazi più ampi, si diffonde
nelle scuole, nei giornali e diventa parte della riflessione accademica.
Come ho detto più volte anacronismo e
moralismo.
Il tema della schiavitù ci mette alla prova nel riconoscere le
dinamiche della storia in modo complesso, anche se l’opinione corrente ha un
suo punto di vista che ha saputo imporsi solo grazie a motivazioni semplici,
che sfruttano la componente morale, tipica di ogni essere umano, ma soprattutto
forte e fondante in Occidente per il ruolo del Cristianesimo. Certe volte
appare strano che si sia potuto sviluppare un tema come la schiavitù solo a
partire da pregiudizi e stereotipi, isolando singoli aspetti e trasformandoli
nell’atto di accusa definitivo. Eppure la parola “Storia” vuol dire
semplicemente “racconto” e, come sappiamo tutti, un racconto è tale solo se ne
seguiamo l’evoluzione che deve tener conto di tutti gli elementi in gioco.
Per affrontare il tema della schiavitù in modo
storico e non moralistico occorre partire da molto lontano. Nell’analisi
dell’evoluzione sociale K. Marx, pur con lo schematismo che lo caratterizza,
riconosce che la prima società umana è stata “la società schiavista” e
riconosce questa caratteristica come un dato comune: nonostante, come è noto,
egli volesse il superamento del capitalismo non attribuisce la schiavitù alla
società capitalistica e neppure a quell’Occidente che della società
capitalistica era stato la levatrice. Al contrario Marx riconosce che per la
prima volta, nella storia dell’umanità, il capitalismo aveva reso i lavoratori
“liberi”. Cito Marx non solo perché è sicuramente più storico che economista e
filosofo, ma perché, in quanto dettato dall’esigenza di superare il
capitalismo, è su questo tema una voce affidabile.
Dunque la schiavitù non è una stortura, ma un
solido ramo della storia umana. Che riscontriamo ovunque. Una fase di sviluppo,
che dal punto di vista della complessità si caratterizza per relazioni
semplici. Nell’evoluzione umana, che è il passaggio da società meno complesse a
società più complesse, il sistema schiavistico si colloca in basso. Come tutti
gli eventi storici, anche quelli di minore complessità non sono lineari e
questo vuol dire che non esiste una data x in cui una determinata società cessa
di essere schiavista; lo stesso vale per la durata e le forme con cui il
fenomeno si manifesta e si diffonde fino a scomparire.
I libri di storia, e dunque l’opinione
pubblica, si soffermano e insistono per interi capitoli sul Commercio
triangolare e la Tratta dei neri, ingenerando l’idea che essa sia un fenomeno
originale ed esclusivo; non solo, ma esso viene presentato come se fosse di
marca europea e occidentale in genere (doppia infamia) e qualcuno più audace ci
mette di mezzo anche il Cristianesimo (tripla infamia). Ora non c’è dubbio che
il fenomeno su cui si insiste sia stato di enorme portata, soprattutto da un
punto di vista etnografico, visto che gran parte della popolazione delle
Americhe ha antenati provenienti dall’Africa, ma questo è un fenomeno che non
può essere isolato e tenuto fuori dalle forme di spostamento di popoli che
spesso non furono volontari. Molti europei che popolarono l’America e
l’Australia vi furono costretti o dalle circostanze sfavorevoli o dalle
decisioni della Giustizia. Questo per quanto ci riguarda, ma operazioni simili
hanno riguardato praticamente tutti i continenti e moltissimi popoli:
nonostante gli studi in questo campo siano progrediti notevolmente, rimane il
vero e proprio pregiudizio moralistico che tende a colpevolizzare l’Occidente.
Non solo, ma, come vedremo, con riferimento al fenomeno della Tratta e del
Commercio triangolare, il coinvolgimento arabo islamico fu non solo anteriore
ma determinante.
Occorre tralasciare le interpretazioni
astratte che riconducono alla schiavitù la fede e la fedeltà a Dio (quale che
sia) e rimaniamo sul piano propriamente storico. Lo schiavo è, secondo la
celebre sintesi di M. T. Varrone, letterato romano del I° sec. a.C., “uno
strumento parlante”, contrapposto agli animali “strumenti semiparlanti”
e agli oggetti di lavoro “strumenti muti”. Da un punto di vista
socio-economico è dunque uno strumento che ha le caratteristiche di ogni altro
strumento, compreso, in certi casi, anche l’interesse del padrone a trattarlo
bene, perché non ha senso danneggiare uno strumento che ci serve: naturalmente
ciò dipendeva da molti fattori come il rapporto tra domanda e offerta.
Il mondo greco inaugurò la democrazia che
escludeva dalla cittadinanza anche gli schiavi (oltre alle donne e agli
stranieri); i Romani ebbero schiavi che però in certi casi potevano essere
liberati, gli Arabi avevano una società schiavista e lo stesso Maometto
possedeva schiavi. Non c’è dubbio che la schiavitù cominciò a subire colpi
grazie al Cristianesimo, e nell’Europa Medievale si può dire che essa era
scomparsa: merito di un’etica basata sull’uguaglianza e sulla compassione, ma
anche sulle nuove forze produttive che si stavano aprendo. Il Cristianesimo si
interrogò sulla legittimità o meno della schiavitù, cosa che non avvenne nel
mondo arabo: il fatto che Gesù fosse Dio e uomo permetteva di guardare l’uomo
in modo diverso, mentre nell’islamismo Maometto è solo uomo e come tale garante
della sottomissione completa a Dio (Islam vuol dire sottomissione). Inoltre il
Corano, che non può essere interpretato, legittima la schiavitù. Nonostante ciò
i paesi musulmani, spesso in ritardo, hanno proclamato il carattere non
legittimo della schiavitù.
L’interesse per l’argomento non riguarda tanto
il fenomeno in sé che non esiste più, ma la lettura che ne viene fatta e che
continua ad essere antioccidentale. Essa compromette una seria analisi storica
che dal tema della schiavitù si estende ad altri aspetti e per fare questo ha
bisogno di due strumenti che nulla hanno a che fare con la storia, ma che
appartengono all’ideologia: il moralismo e l’anacronismo.
Il periodo che precede la tratta atlantica è
un periodo in cui l’Europa cristiana ha ripudiato la schiavitù, mentre il mondo
musulmano la incrementa diffondendola anche nel continente indiano a partire
dalla sua conquista, che raggiunse la massima espansione con la dinastia
Moghul. Nel resto del mondo, Estremo Oriente e Imperi precolombiani, la
schiavitù era comune, essenziale e non suscitava interrogativi.
Tutti hanno studiato a scuola il
“commercio triangolare” e la cosiddetta “tratta atlantica degli schiavi” o
semplicemente “tratta dei neri” che ha visto come protagonisti i paesi
occidentali, ma quasi nessuno conosce l’esistenza di altre due precedenti tratte
di schiavi, simili per caratteristiche e significato: la “tratta orientale”
e la “tratta africana”. Il motivo di questa forbice di conoscenza è semplice e
riguarda la quasi totalità degli avvenimenti del mondo: conosciamo molto della
tratta occidentale perché l’Occidente non si è mai nascosto e ha sempre
considerato come sua essenza la ricerca della verità e lo sviluppo della
conoscenza. L’Occidente è cosciente che la storia non è immutabile e che è
importante tornare sui propri passi, conoscerli meglio e più approfonditamente,
correggere la prospettiva e procedere al cambiamento, se necessario, per
costruire una società migliore. In Oriente e in Africa gli studi sui loro mondi
sono pochi e spesso svolti per realizzare delle giustificazioni e obbedire a valori
culturali o religiosi visti come immutabili. Non mancano studi di qualità, ma
molto di quello si conosce non si deve a chi in quel mondo è nato e a quel
mondo fa riferimento. “La tratta atlantica, la più famosa e la meno
travisata delle tratte d’esportazione, si sviluppa soltanto nel XVII secolo,
mille anni dopo il fiorire delle tratte orientali che, più precoci e più
durature, alimentarono il mondo musulmano” (La tratta degli schiavi di O.
Pétré-Grenouilleau, Ed. Il Mulino 2004, pag. 17)
Fino alla diffusione della
schiavitù ad opera di Arabi e Turchi il fenomeno era abbastanza
circoscritto: sia in Grecia sia a Roma sia in Cina; lo stesso dicasi
per i Regni Africani. Le cose cambiarono con l’espansione araba che portò alla
conquista e islamizzazione dell’Africa del Nord e di gran parte dell’Oriente
Medio mettendo in contatto Ovest ed Est in un’epoca in cui i commerci si erano
notevolmente sviluppati. In quel periodo, mentre l’Europa si stava
riorganizzando e muovendo soprattutto al proprio interno, gli Arabi prima e i
Turchi poi accompagnavano commercio e religione dall’Oceano Atlantico
all’Oceano Indiano. La vera espansione europea negli altri continenti inizia
solo nella seconda metà del XV secolo e si affermerà nel secolo XVII non più
cedendo il predominio. Nei secoli del dominio arabo, o meglio islamico, la
tratta orientale dei neri raggiunse cifre importanti rifornendosi anche alla
preesistente tratta africana, e soprattutto sub-sahariana.
Come ampiamente documentato questa
tratta risale all’VIII secolo e illustra una rete ampia e fitta: essa iniziava
nelle coste del Mediterraneo (dall’Egitto al Marocco numerosi erano i punti di
partenza e ritorno) scendendo a sud e investendo tutta la fascia che va
dall’attuale Senegal (ex Regno del Mali) fino al Corno d’Africa spingendosi
ancora più a Sud lungo le coste degli attuali Kenya e Tanzania. Importanti
porti erano Zanzibar per la penisola arabica, Mogadiscio per l’India e Suakim
per l’Arabia.
Due link fra le tante cartine che
illustrano il fenomeno:
Non è un problema morale, ma storico:
i musulmani crearono la prima tratta di schiavi neri su scala planetaria solo
perché i loro commerci erano talmente estesi che avevano bisogno di un
approvvigionamento regolare di manodopera a basso costo. Manodopera che
trovarono facilmente in Africa dove avevano già stabilito rotte carovaniere
lavorando insieme ai mercanti africani.
E’ così che arriviamo alla terza
tratta di cui poco si parla, sempre a causa di una visione ideologica e
riguarda proprio gli africani molti dei quali non furono vittime ma
responsabili di avviare il processo. “Il modo di produzione di prigionieri
…era gestito soprattutto da africani…essi provenivano da razzie e catture
operate in guerra e dall’applicazione di regole del diritto consuetudinario
(sanzioni con la riduzione in schiavitù)” (op. cit. pag.74). “In Africa furono
i poteri radicati sul posto a produrre prigionieri e furono poi questi stessi
poteri, attraverso le élite mercantili locali, a regolamentare e organizzare le
operazioni di vendita” (op. cit. pag. 75).
I motivi perché questo poteva
avvenire erano diversi.
1)Uno di questi motivi riguarda
l’assenza di un sentimento di appartenenza a una stessa comunità “africana” e
in effetti termini come Africa e africani avevano un senso solo per gli
europei. Questo è tanto vero che persino oggi non esiste un sentimento di riconoscimento
che sia diverso dalla propria etnia e spesso anche solo dalla propria tribù: una
drammatica testimonianza di cosa voglia dire questo è il sanguinoso e recente
conflitto tra Hutu e Tutsi.
2)C’è poi un sistema che ha radici
solidissime e presenta un evidente vantaggio economico. Di fatto il potere
delle élite locali, data la frammentazione etnica, si basava sul riconoscimento
delle popolazioni, il cui sfruttamento era indubbiamente minore se si rivolgeva
all’esterno, verso tribù o etnie diverse. “I vicini erano dunque le prede e
le vittime designate, soprattutto quando apparivano più deboli, a causa di una
minore complessità delle loro strutture sociali, politiche e militari” (op.
cit. pag. 81). Prendendo in considerazione le regioni dell’Africa Occidentale
più coinvolte nella tratta atlantica, quelle tra Senegal e Camerun, è qui che
ha fatto la sua comparsa il mercato schiavistico, in relazione alla nascita di
veri e propri Stati, il Ghana, il Mali, il Songhai: le testimonianze sono
evidenti, tra VII e XI secolo per Ghana, tra XIII e XVII per Mali e tra XV e XVII per Songhai. Le
scoperte archeologiche se da un lato mostrano questo aspetto, dall’altro lo
escludono per le organizzazioni sociali preislamiche: “L’islamizzazione
delle élite permise alle stesse di legittimare la riduzione in schiavitù delle
popolazioni limitrofe, dichiarate pagane” (op. cit. pag. 84).
Non ci sono colpe né buoni o cattivi,
ma intreccio di flussi che talvolta si fortificano e subiscono
un’accelerazione: l’estensione del commercio islamico all’Africa trasse
vantaggio dalla presenza di reti commerciali indigene e queste reti si
rafforzarono grazie alla presenza di una società, quella islamica, che già
praticava il commercio di schiavi su larga scala.
E’ a questo punto che si inseriscono
gli Europei e si afferma la Tratta atlantica, di cui sappiamo tutto visto che a
scuola e nei mass media si parla solo di questa.
Un altro luogo comune riguarda la
perdita demografica del continente africano in seguito alla Tratta. Vediamo
meglio.
E’ solo dagli studi di Curtin del
1969 e di Eltis del 2001 che il tema demografico assume una credibilità storica
e statistica, ponendo fine a quello che veniva chiamato “balletto delle cifre”.
Ovviamente cifre più precise permettono una riflessione più puntuale, anche se
importante rimane sempre un approccio complesso. Gli ordini di grandezza di cui
oggi disponiamo sono generalmente accettati.
Vediamo le cifre.
Tra il 1519 e il 1867 gli africani
sbarcati al di là dell’Atlantico sarebbero 9.599.000 e diventerebbero 11.062.000
includendo le persone morte nel viaggio. Aggiungendo i 17.000.000
deportati nell’insieme delle tratte orientali arriviamo a un totale di
28 milioni. Qual è stato dunque l’impatto delle tratte sulla popolazione
complessiva dell’Africa? Diversi sono i metodi di approccio, ma preferibile è
quello sistemico che cerca di contestualizzare l’andamento demografico
all’ambiente, ecologico, sociale, culturale e politico. Non mi dilungherò su
questi aspetti che trovano ampia bibliografia. Citerò alcuni aspetti che,
seppur non decisivi, mettono in evidenza elementi in genere trascurati dai
luoghi comuni correnti. Li citerò lasciandoli in sospeso alla curiosità del
lettore veramente interessato.
Secondo alcuni studiosi viene avanzata
“l’ipotesi che, a livello demografico, la tratta avesse un effetto minore delle
siccità, delle epidemie, e delle carestie” (op. cit. pag.376).
Secondo altri va presa in
considerazione l’esigenza dei capi africani di sbarazzarsi dei prigionieri di
guerra più ribelli.
Altri parlano delle mancate nascite
dovute all’esportazione di così tanti uomini, principalmente maschi; a questa
tesi qualcuno si oppone mettendo in evidenza che questo aspetto non è
considerevole a causa del carattere poligamico delle società africane, grazie
al quale la fertilità sarebbe risultata praticamente immutata.
C’è poi chi sottolinea il diverso
impatto regionale su intere aree che non sono state toccate dalle tratte,
mentre i paesi Ibo, Yoruba, Efik, i più colpiti dalle tratte, sono rimasti
paesi dalla densità eccezionalmente alta.
Rimane dunque un terreno di indagine
da sviluppare, ma è facilmente discutibile sia l’approccio minimalista sia
quello massimalista, perché entrambi basati o su dati precisi, ma locali, o su
astrazioni.
Voglio qui disegnare un quadro che
pone il dibattito su un piano ancora più complesso. Vediamone gli snodi.
1)La schiavitù era già fondamentale
per l’ordine sociale, politico ed economico di zone situate a nord della
savana, in Etiopia e sulla costa orientale africana, molti secoli prima del
Seicento (Lovejoy);
2)L’economia di molte aree del
continente africano prima della tratta atlantica non era di semplice
sussistenza, ma si basava su forme di commercio non occasionali e di discrete
dimensioni. Questo fenomeno, come altrove, aveva favorito la nascita e il
rafforzamento di veri e propri Stati con eserciti di soldati: Stati non tribù.
Vengono individuate da Thornton 150 unità politiche sovrane e 4 vaste regioni
diplomatiche e militari (Guinea superiore, Guinea inferiore, Angola, Africa
centro-occidentale;
3)L’influenza europea in questa
economia e su questi Stati rimase fino al XIX secolo marginale: solo verso il
1860 i prodotti europei cominciarono ad avere un certo impatto in Africa;
4)Il crollo del prezzo degli schiavi,
l’influenza della campagna abolizionista, nuove forme organizzative e
produttive, fenomeni avvenuti tra la fine del 1700 e la prima metà del 1800,
mandarono in crisi quegli Stati, favorendo l’intervento europeo in termini di
colonialismo.
In tutto ciò manca il nome
dell’assassino, semplicemente perché la Storia non è un libro giallo. Ormai la
ricerca storica ha chiarito che occorre abbandonare il rapporto causa-effetto o
anche cause-effetti e che invece dobbiamo seguire i diversi flussi e le diverse
relazioni, cosa non facile, ma necessaria per non cadere nel semplicismo
ideologico e moralista. Le tratte degli schiavi neri colpiscono per la
dimensione e la durata, ma non sono niente di unico e anzi sono coerenti con la
storia generale dell’umanità. Purtroppo la ricerca di colpevoli su cui
scaricare le proprie responsabilità nasconde la cattiva coscienza: la storia
non è una lavagna in cui scrivere da una parte i nomi dei buoni e dall’altra
quella dei cattivi. Troppi luoghi comuni continuano a circolare nonostante gli
studi abbiano prodotto enorme materiale di pregio: lo abbiamo visto nel
massacro del 1994 in Ruanda che ha coinvolto Hutu e Tutsi e che alcuni
intellettuali attribuivano ai “colonialisti occidentali”. Sarebbe giunto il
momento di iniziare una riflessione seria: non si creda che ciò riguarda solo
gli esperti, perché troppo spesso è proprio la conoscenza media di una società
che fa la differenza.
Nel Museo Livingstone in Zambia (un
piccolo museo dedicato principalmente alla storia dello Zambia) c’è un pannello
tridimensionale in cui sono rappresentati sei schiavi neri incatenati e un
mercante arabo che li incita, ci sono due bambini e due donne. Trattandosi di
un piccolo museo la scena ha evidentemente un significato importante. Rappresentazione
figurativa di questo articolo.
Ho voluto dedicare un intero capitolo
a questo tema perché esemplare nel modo di affrontare la Storia, non certo per
giustificare ma per com-prendere, cioè prendere dentro di noi il senso degli
avvenimenti, senza dimenticare le nostre origini, ma sapendo che non possiamo
fermarci a quelle.
Esso è esemplare anche perché mostra
la difficoltà che ognuno di noi, giovane o vecchio, maschio o femmina, Occidentale
o Africano ecc., ha nel rapportarsi alla realtà, che sia individuale o sociale.
Quella difficoltà erige muri con i quali cerchiamo di proteggerci, muri fatti
di silenzio rimozione e menzogne. Per fortuna da 150 anni quei muri hanno
cominciato a sgretolarsi e chi prosegue nel nascondersi dietro quei muri è ormai
condannato: il Re è sempre più nudo.
Noi in Occidente non siamo perfetti,
ma per fortuna ci troviamo nel punto di osservazione privilegiato, perché anche
in passato non abbiamo mai rinunciato, nel Caos che è la Storia, a fare i conti
con la realtà e con noi stessi.
Come scrive R. Stark in uno dei suoi
studi: “(A coloro che parlano di imperialismo culturale dell’Occidente,
per coerenza dovrebbero) sentirsi a
proprio agio di fronte a crimini contro le donne come la fasciatura dei piedi,
la circoncisione femminile, la pratica del sati (che obbligava le vedove a
morire tra le fiamme sulla pira funebre del marito) e la lapidazione delle
vittime di stupro in quanto colpevoli del loro adulterio. Richiede anche di
ammettere che la tirannia è auspicabile tanto quanto la democrazia e che la
schiavitù dovrebbe essere tollerata se in linea con le tradizioni locali.
Analogamente impone di considerare l’alto tasso di mortalità infantile, la
perdita dei denti all’inizio dell’età matura e la castrazione di ragazzini,
aspetti validi delle culture locali, da proteggere insieme all’analfabetismo... Non c’è dubbio che la modernità occidentale
abbia i suoi limiti e i suoi malcontenti. Eppure, è di gran lunga migliore
delle alternative di cui siamo a conoscenza, non solo, o persino soprattutto, a
causa della sua tecnologia d’avanguardia, ma anche del suo fondamentale impegno
per promuovere la libertà, la ragione e la dignità umana”( La vittoria dell’Occidente,
Ed. Lindau, 2014).
P.S. Sul razzismo
E’ importante notare come furono i
musulmani i primi a stigmatizzare il colore della pelle identificandolo come un
necessario attributo della schiavitù.
(1)La famosa maledizione di Noè sul
più giovane dei figli di Cam, Canaan (sarebbe stato per i suoi fratelli lo
schiavo degli schiavi), di cui parla la Bibbia fu usata in Europa soprattutto
per indicare ora questo ora quello senza riferimenti a colore o razza. Essa
invece divenne un punto fermo nel mondo islamico per giustificare la schiavitù
di persone nere.
(2)Il grande studioso Lewis ricorda
che la centralità degli arabi nel mondo da loro dominato li portò ad attribuire
“una connotazione di inferiorità alle pelli scure e più precisamente nere”.
Per Pétré-Grenouilleau questo giudizio negativo non era ancora razzismo: “A
spingere gli arabi (in questa direzione) fu proprio la tratta dei neri che creò
negli abitanti dell’impero l’abitudine di vedere degli uomini di colore
asserviti, con la progressiva assimilazione fra la pelle nera e la figura dello
schiavo” (op. cit. pag. 29). A meglio chiarire, riporta un brano importante
di Lewis: “Già durante il Medioevo divenne abituale impiegare termini
differenti per indicare gli schiavi bianchi e gli schiavi neri. Questi ultimi
erano chiamati ‘abd. In parecchi dialetti arabi, il termine finì per indicare
l’uomo nero in genere, che fosse libero o schiavo.”
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