La globalizzazione
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Contro la riduzione a fenomeno già
visto e il nuovo mondo che essa crea
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Quando
negli Anni 90 del 1900 si cominciò a parlare di globalizzazione la maggior
parte delle persone di media cultura, soprattutto in Italia (chissà
perché?), sentì puzza di bruciato e, mettendo insieme i due concetti che
aveva compreso, decise che essa era male e che dovevamo combatterla. Era male
perché mostrava il trionfo del “capitalismo” a livello planetario. Nonostante
il recentissimo, allora, crollo del comunismo in Europa, quelle persone
continuavano a sognare la morte dell’economia di mercato pur non sapendo con
cosa andasse sostituita. A dire il vero non sapevano neppure come combatterla e
per questo si limitarono ad articoli di giornale e alla diffusione della
critica alla globalizzazione nelle scuole, creando generazioni di convinti
anticapitalisti (che naturalmente, come i loro maestri, non sapevano né come
combattere la società né cosa costruire in alternativa). La conseguenza la
vediamo sotto i nostri occhi: un ritardo enorme dell’Italia nel campo
dell’innovazione e una tendenza ad essere mantenuti (dalla famiglia o dallo
Stato).
Visto
che le chiacchiere (e soprattutto quel genere di chiacchiere) non sortivano
alcun effetto, la parte più intelligente dei critici della globalizzazione
cambiò atteggiamento e cercò di sminuirne la portata e il valore,
normalizzandola e relativizzandola: la globalizzazione c’è sempre stata,
smettiamo di enfatizzarla. Si pensava, così facendo, di nasconderne gli
evidenti effetti positivi.
La
globalizzazione, a dispetto dei primi e dei secondi, andava avanti per conto
suo, come da sempre fa la società umana.
Oggi
ci troviamo in una situazione simile, dove i cloni dei vecchi anticapitalisti
puntano tutto su aspetti diffusi per riprendere il mantra antiglobalizzazione.
Da
un lato abbiamo gli ecologisti km. zero che credono o fingono di credere che
una popolazione come quella attuale possa nutrirsi o riscaldarsi solo usando
materie prime coltivate o scavate nei pressi di casa nostra. La scusa, alta e
superiore, sarebbe il bene del pianeta: in realtà sarebbe un ritorno all’età
della pietra.
Da
un altro lato abbiamo i sovranisti, populisti o democratici, che prendono
spunto da situazioni diffuse soprattutto in Occidente, reclamando il ritorno
all’idea di nazione se non proprio al nazionalismo. Si enfatizza la Brexit, si
ricorda il motto “America First” di Trump e i tentativi di imitazione in
Francia, Italia e Ungheria, mentre si soffia sul fuoco della così detta Guerra
sui dazi tra USA e Cina. Anche in questo caso l’obbiettivo non dichiarato è
quello di incrinare il sistema di mercato che ha saputo superare indenne, rafforzandosi,
ben due guerre mondiali, numerose crisi petrolifere, l’illusione comunista e
tant’altro. E così farà anche questa volta.
La
storia non è mai determinista ed è evidente che ci sono spinte e controspinte,
interessi diversi di forze diverse che possono accelerare o frenare processi,
momenti in cui tutto sembra procedere in modo lineare e momenti in cui tutto
appare di una difficoltà estrema. Nella riflessione su ciò che è la storia
occorre avere strumenti e chiavi di lettura fondati, perché è facile prendere
degli abbagli, soprattutto con la cultura di massa e la pretesa del primato
della politica. Nel XIX e XX secolo tutti erano storicisti, versante idealista
o materialista, e sembrava che la storia avesse una direzione e che compito
della società fosse quello di adeguarsi il più possibile. Lo sviluppo della
scienza e numerosi studi hanno mostrato quanto quel filone fosse illusorio. Non
del tutto inutile, ma illusorio e soprattutto con la pretesa di Verità che
emanava un alone molto pericoloso. Ma torniamo alla globalizzazione; una
volta superato l’equivoco possiamo cercare di capire cosa significhi e un modo
abbastanza utile per farlo può essere (come in biologia) studiarne la genesi.
Non
esiste una causa, non esistono più cause, non ci sono concause e via
discorrendo: solo flussi che si interconnettono, si mescolano, si impongono,
vanno avanti, retroagiscono e così via. Io penso che cinque siano i
flussi più importanti: crisi e crollo del comunismo, rivoluzione
informatica, nuove frontiere in campo economico, fine dei regimi totalitari e
nazional-protezionistici, scienza della complessità.
Li
presenterò uno ad uno cercando di mettere in evidenza gli aspetti di novità e
di senso che rappresentano il ponte tra passato e futuro.
1)Crisi
e crollo del comunismo. L’economia sovietica era, come aveva visto lo
stesso Trotzkij, solo capitalismo di Stato: un’economia diretta dall’alto,
fatta sulla carta senza alcuna verifica dei costi umani e materiali, imposta a
cittadini che devono solo ubbidire, basata sulla paura e sul ricatto. Le scelte
del Partito andarono nella direzione dell’industria pesante e bellica, con una
qualità della vita bassissima, tanto che negli anni ’80 la mortalità infantile
aveva ripreso a crescere. La distruzione del capitale umano era altissima,
visto che le direttive non prevedevano fasi intermedie; e lo stesso va detto
per la distruzione ambientale come dimostrano al massimo livello i casi di Chernobyl
e la scomparsa del Lago Aral. Lo stesso avveniva in Europa Orientale, persino a
Berlino Est, avveniva in Cina, a Cuba e ovunque il comunismo aveva prevalso.
Era un capitalismo di Stato un po' particolare dal momento che il mercato era
ridotto: la qualità e la quantità della produzione erano molto bassi. Da un
punto di vista economico questo significava un basso livello di sviluppo delle
forze produttive e una tendenza alla chiusura all’interno del paese o, al
massimo, all’interno dell’area comunista. Il crollo dei regimi comunisti
europei ha significato un rapido aumento della qualità e della quantità
dell’attività produttiva oltre che un enorme interscambio con il resto del
mondo. Anche la Cina, pur non rinunciando alle bandiere rosse, ha sviluppato un’economia
sempre più di mercato che sta producendo risultati grandiosi. Di tanto in tanto
emergono voci nostalgiche che rievocano i fasti dei 70 anni rossi oppure voci
di estrema purezza che sottolineano la quasi dittatura del nuovo regime di
Putin, chiamato il “nuovo Zar”. Le neuroscienze hanno mostrato proprio negli
ultimi decenni come la mente abbia difficoltà a confrontarsi con la realtà e
abbia bisogno continuamente e regolarmente di falsificare ciò che ha di fronte,
perché le convinzioni codificate hanno stabilito precise connessioni che
possono essere cambiate solo attraverso processi di sofferenza.
Milioni
di morti, migliaia di gulag, censura e silenzio culturale, povertà
generalizzata: sì, ma…
Non
è un caso che i più restii a fare i conti con la realtà sovietica si trovassero
in un Occidente abbastanza soddisfatto anche da un punto di vista culturale. In
fondo perché stupirsi: il nazismo aveva attecchito nella coltissima Germania.
Lo
sconvolgimento avvenuto negli anni ’90 del secolo scorso all’interno del mondo
comunista ha significato l’allargamento a dismisura del mercato mondiale.
2)Rivoluzione
informatica. Tutti sappiamo che lo sviluppo dell’informatica è cosa recente
e che ha avuto e continua ad avere un forte impatto nella vita delle persone.
Per molti si tratta però solo della Terza Rivoluzione Industriale, cioè di uno
sviluppo tecnologico in continuità rispetto alle due precedenti rivoluzioni
industriali: insomma qualcosa di normale, un semplice cambiamento di abito,
ricco utile interessante, ma anche in questo caso si tratterebbe di cosa già
vista.
Purtroppo
questa analisi è sbagliata, perché non si rende conto del salto di qualità che
la Rivoluzione Informatica ha determinato, come vedremo in modo ancora più
compiuto nell’analisi del prossimo punto. Oggi si parla di economia della
conoscenza e dell’informazione, proprio perché conoscenza e informazione non
sono la teoria che precede la pratica, ma al contrario fondono l’aspetto
teorico e l’aspetto pratico. Come scriveva già nei primi anni ’90 Negroponte,
uno dei massimi studiosi del settore: si è passati dall’atomo al bit, dal
materiale all’immateriale, mentre tra Prima e Seconda Rivoluzione Industriale
si passava da un tipo di atomo ad un altro tipo di atomo. I bit superano la
concezione che noi abbiamo avuto sinora del tempo e dello spazio: non esistono
frontiere o barriere fisiche per il loro spostamento e il tempo risulta
annullato. Non esistono, per i bit, monti da superare, e il tempo impiegato ad
arrivare a destinazione tende a zero. Quattro potenti qualità caratterizzano la
nuova era digitale: la decentralizzazione, il carattere global-local, la tendenza
ad armonizzare e a rendere le persone più forti e indipendenti.
Oggi
è possibile entrare in contatto rapidamente con quasi tutti gli altri esseri
umani indipendentemente da dove ci troviamo e chi siamo, per carattere o
condizione sociale. Il piccolo paese della valle alpina è in contatto (se
vuole) con la spiaggia dei Caraibi o con la foresta di Sumatra. Si tratta di
contatti che possono andare ben oltre lo scambio di saluti e farsi proposta
produttiva, organizzazione di viaggi o scambio di conoscenze, punti di vista
differenti, affetti rabbia insulti amori. La possibilità di maggiori contatti
virtuali (ma in inglese virtual significa reale) permette anche la possibilità
di maggiori contatti fisici. Nei miei primi viaggi mandavo una lettera e dovevo
aspettare una risposta: passava anche un mese. Oggi tutto avviene
immediatamente e, come ho scritto, la cosa non riguarda solo il tempo, ma anche
lo spazio: una più rapida risposta facilita i miei movimenti. Per non parlare
della conoscenza. A me piacciono i libri e continuo a consultarli, ma non si
può negare che la Rivoluzione Informatica ci permette di avere un campo
conoscitivo molto più vasto. Nel 1991 in previsione di un viaggio nel Sud
dell’India volevo avere qualche rudimento nelle lingue là predominanti, tamil e
malayalam; dovetti andare a Venezia all’Istituto di Lingue Orientali dove
riuscii a consultare un testo e fotocopiarlo. Oggi sarebbe molto più semplice.
Ridurre
poi la Rivoluzione Informatica all’automazione e alla robotica è un modo per
ridurre il campo visivo e quello mentale, come pure pensarla solo in termini di
Intelligenza Artificiale è un modo per restare in campo tecnico perdendo di
vista la dimensione culturale che “Being digital” comporta. Tutti siamo
investiti quotidianamente da questo nuovo modo di essere non solo della società
umana ma anche dei singoli individui. Nell’universo industriale esistevano beni
per il consumo individuale e beni per una destinazione sociale: produrre una
pressa serviva a produrre un’auto che serviva per attività ludiche o
lavorative. La rivoluzione informatica abolisce queste distinzioni e queste
separazioni, mentre irrompe in maniera indistinta nella vita sociale e nella
vita individuale. E così veniamo ai cambiamenti strutturali dei processi
economici.
3)Nuove
frontiere in campo economico. Nello stesso periodo cambiavano nell’economia
di mercato le caratteristiche dell’attività economica, che assumeva una veste
completamente diversa da quella precedente. La differenza più significativa sta
nel fatto che si è passati da un’economia basata su alti volumi di produzione a
un’economia fondata su alto valore aggiunto.
Nel
primo caso la quantità era il fattore determinante per la crescita della
società: più macchine voleva dire più lavoro, più consumi e più profitto.
Questo aveva come conseguenza una diminuzione costante del valore del singolo
prodotto.
Nel
secondo caso invece la ricchezza è il frutto di quanta conoscenza e
informazione sono incorporati in un prodotto. Non sono più tonnellate di
acciaio che arricchiscono la siderurgia, ma la produzione di leghe speciali per
esigenze particolari; per produrre queste leghe che vadano incontro alle
esigenze dei clienti occorre qualità, cioè studio e informazione. Ecco perché
oggi tutti dicono che viviamo nella “Società della conoscenza e
dell’informazione”. Informazione non vuol dire giornali e TV, ma
informatica; conoscenza non vuol dire cultura generale, ma studio studio e
studio.
E
qui si cela un’altra, profonda e decisiva, differenza. Vivere aumentando
regolarmente la quantità della produzione comporta anche la svalorizzazione (e
lo svilimento) della forza-lavoro. Vivere aumentando regolarmente la qualità
della produzione comporta la continua valorizzazione della forza-lavoro: le
braccia sono riproducibili e intercambiabili, mentre la mente è unica e non
riproducibile. Chi lavora con le braccia non aumenta il valore della propria
forza-lavoro, al contrario di chi cerca e trova soluzioni perché ogni passo è
un passo avanti. E oggi è questo il tipo di lavoro più numeroso.
Ci
sarà sempre bisogno degli altiforni per produrre tubi e condutture, ma la
crescita economica (anche in termini di occupazione) avverrà grazie al saper
rispondere alle sempre più nuove richieste di produttori e consumatori.
Per
anni, pur di accusare il capitalismo (sorry, l’economia di mercato) molti hanno
enfatizzato lo sviluppo della produzione in paesi come la Cina, sottolineando
lo sfruttamento di bambini costretti a cucire palloni, scarpe, oggetti vari.
Senza negare che le imprese devono tenere d’occhio i costi e che dunque vanno
dove il costo della forza-lavoro è minore, quel ragionamento era semplicistico
e non vedeva come la circolazione di maggiore denaro aumentava le possibilità
di un paese. Quei paesi, additati un tempo come campi di sfruttamento, oggi
vivono condizioni migliori e crescono a un ritmo notevole. Non solo quantità,
anche qualità. Le cineserie a 0,99 euro ci sono ancora, ma la Cina è tra i
paesi in cui la qualità produttiva è a livello di quella occidentale (altro che
Trabant della Germania Orientale, qui si parla di Huawei, Lenovo ecc.). Non
solo, ma nelle statistiche mondiali fatte in Occidente relativamente alla
qualità degli studi universitari le facoltà cinesi sono sempre più numerose e
sempre più tra i primi posti.
La
società della conoscenza e dell’informazione ha di fatto annullato le
frontiere, anche per le caratteristiche messe in evidenza nel paragrafo
precedente (La Rivoluzione Informatica). Senza andare molto in alto, anche una
semplice automobile vede il prezzo diviso tra diversi componenti di diverse
origini nazionali. Quando Trump e uno qualsiasi dei popul-sovranisti europei
lanciano la propaganda per i prodotti nazionali, non sanno o fingono di non
sapere che il marchio può essere nazionale, ma i ricavi finiscono sparpagliati
in diverse parti del mondo.
4)Fine
dei regimi totalitari e nazional-protezionistici. Sempre negli stessi anni assistiamo a livello
mondiale a una crescita di regimi democratici e alla fine di economie chiuse.
Già con la fine della Seconda Guerra Mondiale la tendenza al protezionismo
aveva subito forti colpi, ma la situazione era composita e ampie aree si erano
sottratte al libero commercio. In generale esiste una correlazione (verificata
anche storicamente) tra democrazia e libertà di commercio; non è una regola
generale e universale, ma sicuramente questa è la tendenza.
Abbiamo
già visto come due grossi paesi, l’URSS e la Cina Popolare, fossero
sostanzialmente fuori dal mercato mondiale e procedessero secondo linee
autarchiche dentro l’area comunista, un’area che non era un mercato perché si
basava su decisioni centralistiche e rapporti di forza secondo scelte
strategiche dei due colossi.
L’URSS
forniva petrolio sottocosto a Cuba e in cambio pagava a prezzi altissimi
l’unico prodotto dell’isola, e cioè lo zucchero: questo garantiva la
sopravvivenza e l’armamento dell’isola, decisivi per il rafforzamento del
fronte sovietico. All’inizio anche la Cina, la Yugoslavia e la Romania
rientravano in questa dipendenza, poi ci fu la rottura tra Cina e URSS e da
allora due furono le aree comuniste.
Già
queste aree escludevano miliardi di persone dal mercato mondiale, ma non erano
le uniche.
Altri
due paesi di grandi proporzioni avevano fatto una scelta nazionalista e
protezionista, dove lo Stato svolgeva un ruolo fondamentale anche a livello
economico. Certo non erano regimi comunisti, ma lì lo Stato controllava almeno
i settori strategici dell’economia e molto altro, tanto che la borghesia
dipendeva totalmente dallo Stato.
Questi
due paesi erano l’India e il Brasile: anche qui la popolazione sottratta al
mercato mondiale era vicina al miliardo. Oltre a questi va ricordato il Sud
Africa e molti paesi africani soprattutto sub-sahariani. Solo a titolo
indicativo il PIL dell’India tra il 1950 e il 1970 è rimasto stabile, ha visto
un modesto aumento tra il 1970 e il 1985 per poi impennarsi a partire dagli anni
Novanta grazie alle riforme economiche in chiave liberista e alle
privatizzazioni dell’ingente proprietà pubblica, oltre a una liberalizzazione
degli scambi con l’estero.
Il
Brasile è, in questa prospettiva, esemplare.
Negli anni ’70 del 1900, in relazione allo sviluppo
della dittatura, l’economia brasiliana passò ad essere dominata dallo Stato in
una forma mai vista: grandi investimenti nel petrolchimico, nell’energia
nucleare, nella telefonia, nella siderurgia, nel settore minerario, ferroviario,
stradale, nell’industria pesante, energia alternativa, settore idroelettrico,
centri di ricerca…Si raggiunse la cifra di 440 imprese statali.
Negli anni ’80 col ritorno alla democrazia crebbe
l’inflazione a tal punto che fu coniato il termine di iperinflazione. Il dramma
non fu solo quello dei conti economici, ma la devastazione sociale: la classe
imprenditoriale si era disabituata al rischio economico e alla concorrenza,
guadagnando denaro in mercati protetti e attraverso i sussidi del governo; gli
agricoltori si erano abituati a chiedere tutto e aspettare tutto dal governo,
che finanziava e comprava i raccolti.
Le cose cominciano a cambiare alla fine degli anni
Novanta e da allora il Brasile è divenuto uno dei paesi che crescono più degli
altri e alla fine del primo decennio del nuovo secolo la classe media è
divenuta la classe più numerosa con 20 milioni di persone che hanno abbandonato
le classi più povere.
Non è mia intenzione qui sviluppare un discorso
sulle problematiche del grande paese sudamericano, ma far notare come è proprio
negli anni ’90 del 1900 che l’uscita di molti paesi importanti dalla logica
nazionalistica e protezionistica si è affiancata ad altri fattori, contribuendo
a disegnare quel nuovo quadro mondiale che va sotto il nome di globalizzazione
(in francese mondialisation).
5)La
scienza della complessità. Poincaré visse alla fine del 1800, Heisenberg
negli anni ’20 del Novecento e Gödel poco dopo, Von Neumann nel secondo
dopoguerra, Prigogine negli anni ’70. Ma è solo dagli anni ’90 del secolo
scorso che i paradigmi epistemologici cominciano a modificarsi: il Santa Fe
Institute ne è il simbolo. Da allora il fenomeno ha subito un’accelerazione
tale che oggi non è più da stupidi negazionisti o fantasiosi intellettuali
parlare di “Scienza della complessità”. Oggi la quantità di studi che
giustificano quell’espressione è tale che può soddisfare le esigenze e le
attitudini di ognuno. Non esiste branca del sapere e della vita che rifugga
dall’analisi in termini di complessità e non sarò io qui a fare un riassuntino.
Cercherò nelle poche righe che mi sono permesse di tracciare alcune linee di
lettura per facilitare la comprensione del senso all’interno di questo
articolo.
La
scienza tradizionale (da Galileo a Einstein) era deterministica e si poneva
l’obbiettivo di individuare leggi universali nel comportamento della Natura; si
trattava di Leggi che richiedevano una semplificazione, cioè
un’approssimazione, per funzionare. Hanno funzionato come possiamo vedere negli
sviluppi della tecnologia, ma hanno cominciato ad essere insufficienti quando
da un lato la realtà si è fatta più complessa e dall’altro si è voluto andare
più in profondità.
Se
io voglio avere un’idea di una montagna, ne faccio un modello e la tratto come
un triangolo, un cono o una piramide, figure geometriche che sono state
studiate in modo approfondito. Se però voglio vederci meglio allora devo
trovare strumenti teorici che mi permettano di non ridurre la montagna a una
figura geometrica euclidea: è solo un esempio ma può essere utile a capire il
senso dello studio di fenomeni complessi.
Per
poter studiare la relazione e l’interdipendenza tra tre corpi procedo con
un’approssimazione, quella di considerarla come la somma della relazione tra
due corpi, una relazione che è di estrema facilità. L’approssimazione è sempre
utile e non è mai troppo lontana dalla realtà, ma quando decido di vederci più
chiaro allora mi accorgo che uno studio complesso può portarmi molto lontano.
In
misura sempre maggiore si è compreso che la scienza tradizionale funzionava in
campi determinati, ma non era in grado di rispondere a quesiti di sempre
maggiore complessità e ciò ha cominciato a coinvolgere non solo la fisica e la
chimica, ma anche tutte le altre scienze. Un ruolo decisivo negli ultimi anni è
stato svolto dalla fisica quantistica, dalle neuroscienze, dall’informatica
fino a coinvolgere anche le cosiddette scienze deboli, quelle umane.
La
separazione tra scienze fisiche e scienze umane ha cominciato piano piano a
cedere fino a crollare, scoprendo che il comportamento delle particelle non era
poi così dissimile dal comportamento di organi, come il corpo umano e la
società.
C’è
un esempio, se vogliamo molto banale, che ho sempre fatto per mostrare come il
successo degli USA sull’URSS fosse nella diversa naturale costruzione dei due
paesi, nel costume e nelle abitudini degli abitanti. Il gioco preferito dai
sovietici è sempre stato il gioco degli scacchi, mentre gli americani hanno sempre
preferito il poker. Gli scacchi sono un gioco deterministico, nel senso che si
possono prevedere mosse e contromosse. Il poker è invece un gioco aleatorio;
anch’esso ha un certo grado di prevedibilità, ma poi è casuale e legato
all’abilità del giocatore. Diciamo che il primo incarna la scienza moderna, il
secondo la scienza complessa: gli americani hanno avuto meno difficoltà ad
affrontare le situazioni in continuo mutamento che la complessità del mondo
moderno propone.
CONCLUSIONI
La
globalizzazione, letta in questo senso, riassume in sé gli aspetti principali
del mondo con cui ci troviamo ad interagire. Molti dei comportamenti o delle
tendenze alla moda trovano la loro giustificazione in quegli aspetti che ho
proposto come flussi: la libertà, la tecnologia, la conoscenza, il viaggiare,
il caos. Si tratta di aspetti che conformano la nostra esistenza; non sono
valori assoluti, ma ai valori assoluti dominanti fino a qualche decennio fa si
contrappongono nettamente e aprono a possibilità numerose e inattese.
Ancora
oggi per molti la politica, il terreno politico, rimane il luogo privilegiato
dell’attività umana nella convinzione fideistica che solo l’intervento politico
possa procedere a un cambiamento della realtà. Questa sopravvalutazione
presentava grossi limiti anche in precedenza, quando il ruolo delle élite era
fondamentale, ma oggi risulta sbagliata. Il predominio della politica, così
enfatizzato ancora nel fatidico ’68, comporta quasi necessariamente la
convinzione che la vita umana dipenda essenzialmente dall’Istituzione che per
definizione svolge il ruolo principale in campo politico, cioè lo Stato. Più lo
Stato interviene e in misura crescente diminuisce il ruolo, cioè la libertà,
degli individui.
Nella
società globalizzata che ho cercato di descrivere, andando oltre al notevole
incremento dei movimenti, di merci e persone, un ruolo nuovo viene ad assumere
l’individuo che ha di fronte a sé orizzonti e possibilità che in passato gli
erano precluse. Non è il Paradiso in terra né il Sol dell’avvenir. Si tratta di
possibilità, cioè di strade nuove che possono essere percorse, e in quanto
possibilità non sono certezze: dipendono da moltissimi fattori, tra i quali
però diventa determinante l’impegno e la consapevolezza con cui ognuno pensa a
costruirsi. Non sto parlando solo di lavoro, ma dell’incontro che si può venire
a creare tra sogni, interessi, professioni, tempo libero. Non si tratta più di
aspetti separati, ma di momenti che possiamo scegliere di far incontrare,
dialogare o anche, semplicemente, di lasciare separati. Dipende da noi.
Ragionando
in termini di cause e concause si restringe il nostro campo visivo e non
riusciamo a renderci conto di ciò che ci aspetta e di quali siano le
prospettive di fronte a noi. Il crollo del comunismo come causa della
globalizzazione? Difficile da sostenere. E se lo accompagniamo alla Scienza
della complessità, le cose sono più chiare? Direi di no. Anche perché sorge un
conflitto concettuale (almeno in superficie) tra il primo argomento e il
secondo: che c’entra il crollo del comunismo con la scienza complessa? E’ per
questo che occorre imparare a servirsi del concetto di flusso: naturalmente
esso non permette di prevedere il futuro né è in grado di fotografare una
determinata situazione. In compenso, pur con tutte queste difficoltà e questi
limiti, ragionare per flussi permette di allenare la mente sempre di più
nell’esercizio di studiare fenomeni complessi, in modo che in misura sempre
maggiore saremo in grado di non fermarci a ricercare la causa di un fenomeno,
causa che naturalmente tende a trasformarsi in colpa. Causa, cause, colpe sono
gli strumenti che, come i triangoli di Euclide, abbiamo costruito per cercare
di orientarci nel caos rappresentato dalla realtà: oggi ci rendiamo conto che
quegli strumenti non sono adeguati a comprendere ciò che succede intorno a noi.
Non solo, però; in un mondo che vede gli individui sempre più protagonisti,
quegli strumenti risultano inadeguati anche nelle relazioni interpersonali:
quante volte ci limitiamo a dire che lui è uno str*** senza seguire i flussi
che lo hanno e ci hanno caratterizzato? I flussi non aprono al relativismo
culturale, non sono giustificazioni; al contrario aprono a una visione più
ampia certo, ma dopo aver ristretto gli orizzonti. Come ci insegna la biologia,
i vincoli sono necessari perché la libertà non è mai assoluta, ma allo stesso
tempo dipendono da quei vincoli le possibilità che abbiamo di fronte a noi.
La
globalizzazione in questo senso è un terreno molto interessante per
confrontarci con gli eventi in modo non deterministico o moralistico, proprio
per il suo carattere estremamente complesso. Io ho individuato cinque elementi
che vedo come flussi nella formazione della globalizzazione; potrebbero essere
di più o anche di meno, ma non possono essere visti come la lista della spesa
delle cause. Alcuni potrebbero essere raccolti altri scomposti, ma non è questo
che importa.
Il
crollo del comunismo mostra come non esista altra possibilità al di fuori
dell’economia di mercato e della liberaldemocrazia.
La
Rivoluzione Informatica mostra un punto di non ritorno nell’importanza della
tecnologia nella costruzione dell’essere umano e lo stesso vale per la Società
della conoscenza e dell’informazione, mentre la rottura delle frontiere non è
più un fattore episodico o di volontà, ma qualcosa di cui abbiamo bisogno per
andare avanti.
Infine
la scienza della complessità apre nuovi orizzonti nei contenuti e soprattutto
nel metodo che porta alla conoscenza, togliendo quel carattere di universalità
e di sacralità che la scienza moderna aveva assunto.
Tutto
questo non serve a dimostrare chi aveva ragione e chi torto né a prevedere il
futuro, ma serve a ognuno di noi per riflettere su cosa significa “spazi di
libertà”, “comunicazione”, “successo”. Per la prima volta nella storia
dell’uomo tutto questo è possibile non solo per una élite, ma per ogni
individuo.
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