L’Asia
Crescita e ritardi di un continente dalla storia rilevante



L’Asia è stato il primo continente a svilupparsi dando vita a forme di organizzazione sempre più complesse e lo ha fatto in maniera globale interessando molte delle sue regioni. Tutti i libri di Storia parlano del sorgere di civiltà lungo i fiumi, e in Asia ne abbiamo almeno tre: la Mesopotamia del Tigri ed Eufrate, la Valle dell’Indo e la profonde valli del Fiume Giallo e del Fiume Azzurro. Lungo queste rive abbiamo avuto culture importanti come quella Assiro-Babilonese e Persiana, quella Indiana e quella Cinese. Non mi interessa qui fornire informazioni su queste realtà, informazioni che qualsiasi libro di storia riporta e che gli studenti hanno imparato nelle prime settimane del primo anno delle superiori. Nell’impostazione di queste lezioni ho detto che a me interessa mostrare un quadro che non è statico, che non si muove per cause ed effetti, ma che è caratterizzato da continui flussi che scorrono in reti sempre più ampie.

L’Asia ci aiuta molto in questo progetto e ci fornisce strumenti utili che mettono in soffitta certe pseudo-categorie che sono andate diffondendosi soprattutto negli ultimi decenni: esse riguardano, ancora una volta, il preteso indigenismo, il preteso sfruttamento coloniale dei Paesi Occidentali, il preteso spiritualismo di quei popoli contrapposto al bieco materialismo europeo e americano.

Non mi è possibile riprodurre il quadro completo per l’estensione che tempo e spazio hanno, ma invito un lettore non ideologico a documentarsi (anche rapidamente, anche su Wikipedia o simili) sulla storia di un paese scelto a caso: si renderebbe conto della complessità delle relazioni sociali.

Cercando di comprimere tempo e spazio per poter procedere poi a un dis-viluppo possiamo individuare tre aree più significative: l’area mediorientale che va dal Mediterraneo all’India, l’India e la Cina. Ognuna di queste aree ha proceduto sia come attrattore sia come attrazione rispetto alle aree vicine, cosa di cui è doveroso tener conto.

Spesso si parla di “dispotismo orientale” per individuare una caratteristica comune a molti importanti Stati asiatici, rifacendosi alla tesi di Wittfogel che lo collega al ruolo decisivo che i fiumi ebbero in quelle regioni (lo chiama “dispotismo idraulico”). Non è questa la sede per sviluppare una riflessione approfondita su questo tema, cosa già fatta da molti illustri studiosi, ma di individuare alcuni aspetti comuni, fenomenologicamente rilevanti. L’Impero Persiano, erede di Sumeri Assiri Babilonesi, si costruì a partire dal Tigri e dall’Eufrate, la civiltà dell’Indo-Sarasvati fu il nucleo germinatore dei potenti Stati indiani, e così fu per l’Impero Cinese: si tratta di sistemi autocratici, dove il sovrano esercita il proprio dominio in modo assoluto, nutrendolo di repressione e terrore in mancanza di strutture o ceti che lo limitassero. La concentrazione del potere è tale che spesso religione e politica si fondono nella figura del sovrano.

Si può discutere sulla validità di quella teoria, ma certo è che i grandi Stati asiatici che si sono susseguiti nei secoli hanno assunto in modo quasi completo quelle caratteristiche, incluso l’Impero Zarista che è cresciuto sulle spoglie dell’Impero Mongolo e ha proceduto alla colonizzazione della Siberia, trasformata poi nell’area dei Gulag dall’Impero comunista. Come ho spiegato nel precedente articolo, ad un certo momento il rapporto causa-effetto (in questo caso fiume-autocrazia) si rompe e la realtà si costruisce secondo il principio del rinforzo: può non esserci un fiume, come in Giappone o a Sri Lanka, ma il regime autocratico si costituisce egualmente. Non è un problema caratteriale o genetico, per cui gli asiatici sono inevitabilmente tendenti verso forme autoritarie, anche se il sistema complessivo (lo Stato) modella la società e persino l’individuo: esso risponde alle forme di autorganizzazione individuate dalla scienza della complessità.

A differenza di altri continenti, come le Americhe, l’Africa e l’Oceania, l’Asia ha dato vita a una quantità incredibile di organizzazioni sociali che hanno prodotto una enorme varietà di culture, religioni, produzioni artistiche, vere e proprie civiltà dall’ampio spessore. Templi e residenze reali in primo luogo, pensatori e maestri come Buddha, Confucio, Lao-Tse , opere fondamentali come il Mahabarata e i Ching, perfino istituzioni giuridiche come il Codice di Hammurabi. L’Asia è stata anche la fucina di religioni che andavano ben oltre il classico animismo delle origini; pensiamo all’Induismo con le sue diverse confessioni, al Buddismo nelle forme del Mahayana e dello Hinayana, allo Scintoismo e all’Ebraismo. Non considero qui le due religioni più importanti, il Cristianesimo e l’Islamismo che, pur nate in Asia, sono in rapporto alle religioni moderne.



Fino al tardo XVIII secolo solo un libro di medicina era stato tradotto nella lingua del MedioOriente...A parte questo il Rinascimento, la Riforma e la rivoluzione tecnologica erano passati inavvertiti nelle regioni dell’Islam, i cui abitanti consideravano gli occidentali dei barbari, di gran lunga inferiori persino agli infedeli che abitavano in oriente.
(B. Lewis, What went wrong?)



Cominciamo con la prima delle quattro aree individuate: il Medio Oriente, tra il Mediterraneo e l’Indo. Ho già ricordato l’importanza delle culture mesopotamiche, aggiungerei i Fenici che dall’attuale Libano si sono spostati per mare fino a fondare città come Cartagine e Marsiglia e molte altre. Colonizzatori e imperialisti come lo sarebbero stati anche i Greci della democrazia. Ma procedendo alla contrazione spazio-temporale di cui parlavo eccoci di fronte al popolo che maggiormente ha svolto un ruolo nell’area: i Turchi, prima i Selgiukidi e poi gli Ottomani. L’Impero Ottomano si sostituì alla dominazione araba allargando i confini e giungendo fino al centro dell’Europa, lasciando segni della propria presenza nei Balcani. Gli Ottomani non furono né buoni né cattivi, ci furono imperatori feroci e imperatori più saggi ed aperti, ma il tutto avveniva all’interno di rapporti di forza e di potere che erano fondamentali. Cercarono di occupare la cristianissima Vienna per ben due volte e islamizzarono le regioni che la separavano dall’Europa Centrale. Come Stato autoritario e dispotico l’Impero Ottomano non lasciò molto spazio alla libertà e alla creatività dei suoi sudditi, confortato in questa scelta dalla visione coranica per cui tutto era già stato detto: bastava leggere il Libro sacro. La sede reale di Istanbul era una delle più sontuose residenze, cosa che possiamo ancora oggi ammirare in una visita al Topkapi: mentre però in Europa si andava formando tra i cittadini una classe sempre più numerosa che aveva interessi materiali e che portava a sviluppare cultura e tecnologia, l’Impero Ottomano avviò una fase di decadenza che non fu momentanea e che si concluse con la sua scomparsa al termine della Prima Guerra Mondiale. Decisiva fu la rivolta araba e determinante il peso economico, politico e militare di Francia e Inghilterra. Come si sa i Giovani Turchi (al potere dal 1908) ebbero un impeto di orgoglio guidati da Kemal Ataturk (padre dei Turchi) che portò il Paese nel XX secolo, non prima di aver proseguito l’opera imperiale di procedere al genocidio degli Armeni, dei Greci (del Ponto e Ottomani), della santa Chiesa cattolica e apostolica assira d’Oriente (questa la dizione ufficiale) di obbedienza nestoriana, della Chiesa ortodossa siriaca autocefala e monofisita, della Chiesa cattolica sira e della Chiesa cattolica caldea: si trattò di centinaia di migliaia di morti.

Questo il quadro della rinascita turca, che perse tutte le colonie e in particolare quelle asiatiche a Sud e ad Est. In questo quadro ancora oggi molti docenti enfatizzano l’accordo Sykes-Picot e parlano di appropriazione di quelle terre da parte di Inghilterra e Francia.

Quando l’ideologia si impadronisce della storia è meglio cambiare canale.

Innanzitutto la Turchia era risultata sconfitta nella guerra, mentre Francia e Inghilterra avevano perduto più di due milioni di vite umane: gli accordi di pace non sono mai egualitari e dunque come l’Italia ottenne Trentino Alto Adige e Friuli così avvenne per le nazioni vincitrici. Ma c’è in questo caso una evidente differenza: la Società delle Nazioni a cui partecipavano ben 41 Stati aveva creato l’istituto del Mandato che è cosa diversa dal possedimento. Il Mandato prevedeva (art. 22) che:

1)    Erano soggetti a mandato territori precedentemente controllati dagli Stati sconfitti nella prima guerra mondiale.

2)    I mandati erano diversi dal protettorato, perché gli Stati che avevano il Mandato avevano degli obblighi nei confronti degli abitanti dei territori e della Società delle Nazioni.

La Francia ottenne il Mandato su Siria e Libano, mentre l’Inghilterra quello su Palestina, Transgiordania e Irak. Certo, essere presenti e guidare le attività politiche ed economiche di quelle regioni favorisce quei paesi, ma non c’è nulla di cui stupirsi, vista la sconfitta dell’Impero Ottomano che non era stato con le mani in mano, ma, al contrario, aveva combattuto e aspramente, come ricorderanno gli Inglesi a Gallipoli. In definitiva la presenza inglese e francese era pienamente legittima, conformemente al diritto internazionale allora vigente, e permise ai popoli di quelle regioni di cominciare a pensare e organizzare il proprio futuro. Questa valutazione rimanda a un altro equivoco che l’ideologia non vuole vedere: purtroppo circolano su Internet documenti (docsity.com) di professori di Storia (ripresi ad esempio dal docente di mia figlia) in cui si parla delle Capitolazioni come concessioni umilianti estorte agli ufficiali ottomani da uomini d'affari europei”.  Le capitolazioni si chiamavano così perché erano atti giuridici divisi in capitoli e riguardavano concessioni fatte dall’Impero Ottomano fin dal XII secolo agli Stati Europei ed erano atti bilaterali siglati da Stati e quindi avevano valore di diritto internazionale, tanto che non potevano essere aboliti unilateralmente: quindi non atti privati, come scritto, tanto meno estorti. Troveremo un fenomeno simile parlando della Cina.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale con la creazione di Stati autonomi la regione ha visto la presenza di uno stato non islamico, Israele, che i Paesi Arabi prossimi hanno cercato di cancellare e che oggi risulta sotto attacco dei terroristi palestinesi di Hamas e dell’Iran sia con il riarmo nucleare sia attraverso la presenza in Siria e Libano di proprie forze, soprattutto Hezbollah. Non è questa la sede per affrontare la questione palestinese-ebraica, se non ricordare che in Israele la componente araba è rappresentata persino in Parlamento, mentre la comunità ebraica nei paesi islamici, un tempo numerosa e attiva, oggi è praticamente scomparsa.

Il Medio Oriente attualmente ha un’importanza strategica per la produzione del petrolio e i paesi produttori ne hanno approfittato, anche perché i loro proventi sono aumentati notevolmente. La regione è però molto instabile soprattutto per lo scontro all’interno dell’Islam tra sunniti e sciiti, per il ruolo che l’Iran svolge in quanto paese Sciita nella regione, in particolar modo in Libano, in Siria e recentemente anche nello Yemen. Purtroppo il mondo, non solo l’Occidente, dipende ancora troppo dalla produzione del petrolio di questa regione, che ha visto crescere il benessere negli Emirati e in Arabia Saudita, ma che vive di fatto di rendita, dal momento che diritti civili e politici sono fortemente ridotti, che la struttura tecnologica è del tutto importata e che vede la presenza di una forte immigrazione di indiani, singalesi, filippini, che vivono una situazione di forte subordinazione, anche per la diversità di religione.



Le entrate annuali dell’Imperatore Moghul Aurangzeb (1658-1701) ammontavano a 450 milioni di dollari (primo novecento), oltre 10 volte quelle di Luigi XIV suo contemporaneo. Secondo una stima del 1638 la corte moghul aveva accumulato un tesoro equivalente a un miliardo e mezzo di dollari.
(Lybyer, The Government of the Ottoman Empire)



La seconda area di cui occorre parlare riguarda la regione indiana, caratterizzata dal Deccan e dalla catena montuosa più alta del mondo, l’Himalaya, ma anche con propaggini a Ovest (l’attuale Pakistan), a Est (il Bangla Desh) e a Sud (Sri Lanka). Non occorre ripetere quanto è noto a tutti, anche ai semplici turisti: lo sviluppo fin dall’antichità di regni importanti che si sono sviluppati in tutte le parti dell’area, anche se in genere localmente. Un ruolo decisivo nel corso dei secoli lo ha svolto l’Impero Moghul, di religione islamica, che ha dominato soprattutto nel centro nord, sostituito nel 1700 dall’Impero Maratha di connotazione religiosa induista. Poi fu la volta degli Europei e in particolare dell’Inghilterra che a partire dalla seconda metà del 1800 ne fece un proprio Governatorato. Dal 1947 è uno Stato Indipendente creato assieme al Pakistan, nato come patria dei musulmani della regione.

L’importanza di questa area è innegabile e, al di là delle diverse tesi sulle origini dell’universo (etnico e linguistico) indoeuropeo, è molto probabile che dopo la migrazione dall’Africa ci sia stata un’ulteriore migrazione (ovviamente in tempi lunghi e a scatti) verso Occidente. Il Sanscrito, antichissima lingua parlata nella regione sarebbe all’origine di tutte le lingue indoeuropee, compresa la nostra.

Un dato certo è il ruolo che la religione ha sempre svolto dando vita a fedi nuove e che ancora oggi tengono unite intere popolazioni: in primo luogo l’Induismo (con le sue varianti), ma anche il Buddismo. L’Islam ha fatto milioni di proseliti, rappresentando però solo un terzo della popolazione (compresi Pakistan e Bangla Desh), non riuscendo dunque in quella completa assimilazione realizzata nel Medio Oriente. Questo fatto dimostra la vitalità della religione induista che ha saputo integrarsi con la modernizzazione dello Stato indiano. Anche in questo caso la colonizzazione inglese è stata molto più positiva di quanto i detrattori pensino e dichiarino: il sistema dei trasporti, soprattutto ferroviari, e la conoscenza diffusa della lingua inglese sono stati elementi importanti per la trasformazione della Repubblica Indiana. Le condizioni di vita sono migliorate, superando quella tristissima realtà per cui era facile ancora negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso incontrare numerosi morti nelle strade, principalmente di fame: ciò è avvenuto grazie all’uso della tecnologia e di particolari varietà di riso selezionate che hanno permesso di triplicare il raccolto tradizionale: anche il Bangla Desh ha tratto vantaggio da ciò. Esempio significativo di questo sviluppo è il fatto che la seconda Silicon Valley da tempo si trova nel sud dell’India, la regione di Bangalore, e che molti sono gli scienziati indiani che in tutti i campi hanno fornito le loro competenze in Patria e all’Estero.

La situazione è cambiata grazie al fenomeno della globalizzazione a cui l’India ha contribuito in modo significativo. Dall’indipendenza in poi il paese aveva patrocinato una politica nazionalista e protezionista, ispirata al socialismo e all’Unione Sovietica, facendo parte di quel gruppo di paesi autodefinitisi non-allineati, ma che in realtà sviluppavano un’idea anticapitalistica e antioccidentale. La presenza dello Stato nell’economia era enorme e a tutti i livelli, sacrificando di fatto l’iniziativa privata. La globalizzazione è stata sia causa sia effetto di questo grande cambiamento in positivo del Paese di Gandhi: l’abbandono dello statalismo a tutti i costi ha permesso un decollo che ha portato l’India a collocarsi nella fascia medio-alta, insieme a Brasile-Russia e Cina (BRIC).

La regione è dominata da un forte sentimento religioso, antichissimo per quanto riguarda induismo e buddismo, e recente per l’Islamismo. Si può dire che queste differenze sono all’origine di molti problemi che vive la regione, problemi che non sono nuovi ma che negli ultimi 30 anni si sono radicalizzati, riproponendo come in altri luoghi le caratteristiche che hanno portato alla formazione dei diversi sentimenti religiosi. Evitando i soliti luoghi comuni sulla spiritualità indiana che al contrario è fortemente materialista, come tutte le religioni immanenti, occorre risalire nella storia dei diversi nuclei: induismo e buddismo si sono sviluppati in modo organico con la crescita delle comunità, mentre l’islamismo si è imposto attraverso la conquista. Oggi vediamo un induismo radicalizzato nella rivendicazione e nel riconoscimento della propria storia e della propria ragion d’essere, mentre l’islamismo ripropone la visione di purezza che tende a condannare gli infedeli, con l’aggravante per cui il Pakistan è sì a stragrande maggioranza islamica, ma allo stesso tempo protagonista del conflitto dentro la sua stessa comunità tra sunniti e sciiti. La radicalizzazione religiosa ha fatto sì che in Pakistan la violenza religiosa sia altissima e molte le zone d’ombra e di protezione del terrorismo, minando di fatto l’istituzione formalmente liberaldemocratica. In India al contrario la radicalizzazione, che come sempre si muove principalmente intorno ai templi sacri (v. Ayodhya), non ha mai messo in crisi il sistema parlamentare ereditato dalla presenza significativa dell’Inghilterra. Rimangono oggi molti punti di attrito soprattutto alle frontiere, ma, nonostante i motivi di conflitto siano difficili da superare, come succede tutte le volte che si tende a imporre il credo religioso alla vita civile, esiste una differenza, e non riguarda solamente la differenza religiosa, ma anche il contributo dato alla convivenza dalla società civile. La molteplicità di punti di vista in India, grazie anche alle sfide della globalizzazione, permette, insieme alla lunga tradizione liberaldemocratica, di scalzare tradizioni antichissime: l’India si è modernizzata, senza occidentalizzarsi. Questo è visibile nella condanna di episodi che provengono dal lontano passato soprattutto nei confronti delle donne, mentre la stessa divisione in caste, caratteristica millenaria del Paese, sta progressivamente perdendo il valore di rigida chiusura che ha avuto fino a pochi decenni fa.

La democrazia ha funzionato in India, ma non ha funzionato in Pakistan. Ancora una volta quella separazione tra politica e religione, preconizzata da Dante quasi mille anni fa e che è alla base di ogni forma di sviluppo civile, non si è avuta in Pakistan, nonostante le buone intenzioni. Già il fatto di aver voluto creare uno Stato esclusivo per i musulmani indiani (con migrazioni grandiose) dimostra la difficoltà per quell’universo di pensare la religione separata dalla politica, una difficoltà che ormai riguarda essenzialmente solo l’universo islamico. In aggiunta il Pakistan, nonostante i tentativi degli ultimi due decenni, rimane un paese fortemente agricolo e dipendente da una stratificazione sociale tribale ancorata ai clan che da secoli governano ristrette aree del territorio e con cui i governi hanno dovuto e devono fare i conti. In India la storia di Regni importanti e la democrazia postcoloniale hanno impedito la frammentazione sociale che troviamo nel paese confinante. Egualmente però la grandezza del passato indiano che possiamo vedere in tutte le regioni, dal nord indoeuropeo al sud tamil, è tra gli elementi che hanno impedito a questo paese di potersi schierare nel novero degli Stati più moderni: si è verificato, pur con le dovute differenze, ciò che ha riguardato l’Italia dopo il 1500 di fronte alla nascita di moderni Stati nazionali. Ancora oggi nel messaggio ideologico trasmesso nelle scuole italiane si insiste sul fatto che quando i navigatori europei arrivarono a Calicut (e in altri porti indiani) erano talmente impresentabili che venivano considerati come degli “straccioni”; eppure quegli “straccioni” avevano superato gli Oceani e sarebbero diventati padroni del mondo. Come è stato possibile questo cambiamento di tendenza? Fermarsi alla fotografia non serve a nulla se non a criminalizzare o farsi del male: è un film quello che dobbiamo creare e rappresentare. Le possibilità che l’India ha di fronte a sé sono enormi, perché, nonostante i numerosi problemi che rimangono, ha saputo liberarsi di quell’atteggiamento culturale frequente presso altre comunità, e cioè il vittimismo, avendo puntato invece sul futuro e sulla creatività dei propri cittadini. Questi hanno saputo raccogliere la sfida senza rinunciare alla propria Storia: riusciranno così a ricucire il glorioso passato col presente e il futuro?





Ora l’Inghilterra rende omaggio.
I meriti e le virtù dei miei antenati devono aver raggiunto le loro coste lontane.
Benché il loro tributo sia trito, il mio cuore lo apprezza sinceramente.
Non ho in gran conto le rarità e la millantata ingegnosità dei loro congegni.
Sebbene ciò che portano sia ancor più misero, tuttavia,
Per mia gentilezza nei confronti di chi viene da lontano io
Contraccambio con generosità,
desiderando preservare potere e buona salute.

(Poema dell’Imperatore Qienlong in occasione della visita dell’Ambasciatore inglese, 1793)



Passiamo ora a parlare della Cina che ha vissuto una storia simile a quella dell’India per grandezza politica e culturale. E il punto è sempre lo stesso: come sia stato possibile disperdere tutto il patrimonio che aveva accumulato mille anni fa, rimanendo indietro. Solo da pochi anni la Cina appare impegnata in una risalita significativa, tanto da far parlare i soliti futurologi di un sorpasso: certo è che l’avvicinamento è stato rapido e potente.

Ma torniamo alla Storia.

La discussione su chi ha inventato la polvere da sparo, la bussola e persino gli spaghetti è sempre stata oziosa, come gli straccioni di Calicut. Purtroppo la Cina, dopo l’Impero Persiano di Serse e Ciro, è stato l’esempio più significativo di cosa voglia dire Dispotismo Orientale. Per secoli l’Impero Celeste si è autoescluso dal mondo, ritenendosi non solo un mondo a parte ma l’unico vero mondo: la Grande Muraglia non fu costruita per proteggersi da pericolose invasioni, ma per evitare contaminazioni di popoli considerati inferiori. La luce dell’Impero era tale che riuscì ad illuminare anche molti paesi vicini come il Giappone e la Corea (basta pensare alla scrittura). I cinesi accoglievano volentieri singoli viaggiatori stranieri, come si vide con Marco Polo e successivamente con i missionari Gesuiti, ma li ricevevano come si riceve una persona inferiore che non si vuole offendere e a cui si ritiene di poter conferire grazia. E così gli orologi portati in dono dagli europei venivano posti come simpatici soprammobili, come pure la polvere da sparo, probabilmente inventata proprio da loro, veniva usata per giochi acquatici. Gli esempi sono tanti. E come sempre la cultura aiuta in parte a capire certi comportamenti, che risultano innocui se si resta chiusi nella propria stanza, ma che alla fine diventano deleteri quando, per il normale funzionamento delle cose, le relazioni coinvolgono altri soggetti, in questo caso popoli e Stati.

Strumenti e conoscenze occidentali venivano rigettati con orgoglio perché tutto era già stato scritto e apparteneva alla storia della cultura cinese: “I princìpi della matematica derivano tutti dal Libro dei mutamenti e i metodi occidentali sono di origine cinese”(Imperatore K’ang Hsi). Due grandi religioni hanno bloccato la crescita e l’evoluzione di quanto i cinesi erano stati in grado di produrre: il Confucianesimo e il Comunismo. In realtà non si tratta di due vere e proprie religioni, almeno nel senso tradizionale, ma entrambe avevano la pretesa di aver scoperto tutto e trattavano con sufficienza e ostilità quanto proveniva da fuori. La differenza era comunque profonda, perché Confucio traeva il suo sapere dalla scuola della vita, depositata e metabolizzata per secoli, avendo un valore in una società sostanzialmente statica. Mao-tse Tung invece si basava sulla pretesa del carattere scientifico del marxismo-leninismo, sull’esperienza dell’Unione Sovietica, quando in realtà tutto ciò era solo la giustificazione del potere personale e di un gruppo ristretto. Nel primo caso la Cina non seppe accogliere la sfida che proveniva dal mondo di fuori, nel secondo caso invece fu il disastro, caratterizzato dalla fame e dalla uccisione di milioni di persone.

La storia della Cina è straordinaria, ma essa ripete costantemente lo stesso schema: ripudio o svilimento della scienza e della tecnologia occidentale. La cosa perpetuava una convinzione, ma lasciava fuori dal tempo un enorme paese, e poteva essere una cosa non particolarmente grave finché non si arriva al disinteresse cinese anche per gli armamenti europei; infatti i cinesi non impararono mai a fabbricare armi moderne. Fu così che anche i cinesi, come già avevano fatto i Turchi Ottomani, furono costretti a subire le potenze europee, arrivando ad accordi che i cinesi repubblicani di Chiang Kai Shek all’inizio del 1900 avrebbero definito “trattati ineguali”: ancora oggi in Occidente, per il diffuso sentimento anticapitalistico e antioccidentale, intellettuali e professori di storia fanno propria quell’espressione, moralistica ma non corrispondente alla realtà.

Diversamente dai Turchi, per i quali le Capitolazioni erano una tradizione iniziata con le Repubbliche Marinare, in Cina quei “trattati ineguali” furono una novità ottocentesca. Quei Trattati furono fatti tra la Cina e molti paesi, non solo occidentali, ad esempio vi troviamo il Giappone. La Cina non si apriva al mondo, mentre gran parte dei paesi aveva bisogno di aprire nuove relazioni e nuovi mercati; in questo contesto la voluta (per orgoglio) arretratezza cinese poneva il Celeste Impero in una posizione di estrema debolezza. Un simile trattato era stato fatto anche tra USA e Giappone nel 1854 e servì al Giappone per crescere, svilupparsi e modernizzarsi, tanto che non fu più necessario e abolito verso il 1895. La Cina invece non seppe trasformare in opportunità questa situazione che si limitava a fotografare i rapporti di forza. In fondo in situazioni simili solo 2000 anni prima i vincitori del tempo avevano agito in maniera molto diversa: gli Ateniesi uccisero tutti i maschi di Milo e ridussero in schiavitù donne e bambini perché la città non voleva sottomettersi; i Romani dal canto loro distrussero Cartagine solo per evitare una sua rinascita (Carthago delenda est).

A differenza del Giappone la Cina si trovò divisa tra i fautori del rinnovamento e coloro che, in ambito imperiale, intendevano rafforzare il carattere confuciano dello Stato. Il contrasto fu durissimo e portò alla caduta dell’impero e alla nascita di una repubblica che però non controllava tutto il territorio, mentre la diffusione del Partito Comunista porterà nel 1949 alla fondazione della Repubblica Popolare sotto Mao Tse-tung, così che il vecchio Presidente dovette ritirarsi nell’isola di Formosa diventando lo Stato di Taiwan.

La Cina comunista mostrò fin da subito il suo atteggiamento aggressivo, occupando il Tibet e schierandosi con la Corea del Nord; cercò di imitare l’URSS, ma i suoi piani economici furono un fallimento. L’esperienza della Rivoluzione Culturale fu segnata da complotti nel gruppo dirigente e da un’esperienza estrema che portò alla morte milioni di persone e alla perdita del contributo degli intellettuali, mandati a rieducarsi in campagna. Morto Mao Tse-tung iniziò una uscita dal dramma del Comunismo, realizzata per gradi fino alla situazione attuale che conosciamo bene.

La Cina doveva fare i conti con la propria storia e la propria cultura, perché un Paese così importante non poteva restare fuori dalle nuove relazioni sempre più strette che si andavano creando nel XX secolo.

Se da qualche decennio la Cina sta risollevando le proprie sorti e offre, nei fatti, quanto promesso dai Dirigenti comunisti, a parole, è perché la globalizzazione l’ha obbligata al confronto, quel confronto che è stato evitato per secoli e che ha portato il paese a una dimensione di sottosviluppo. Non solo crescita e benessere confermano come economia di mercato e globalizzazione siano strettamente legati, ma garantiscano un’evoluzione che non è solo quantitativa. Mentre gli intellettuali italiani continuavano a sparlare della produzione cinese, riferendola allo sfruttamento di ragazzi e donne per la produzione di beni a basso costo, la Cina andava avanti per conto suo: da un lato il know-how, l’attività di ricerca in tutti i campi e le Università cinesi che entravano a pieno diritto nel top mondiale e dall’altro il capitale cinese che penetrava dappertutto (soprattutto in Africa) finanziando miniere, infrastrutture e agricoltura. Insomma la diffusione di capitali cinesi sta aiutando i paesi meno sviluppati in una crescita maggiore: è curioso, disarmante e illuminante, che per un secolo i marxisti abbiano parlato di imperialismo per la stessa attività che ora i cinesi stanno portando avanti.

Ho analizzato in modo sintetico le tre realtà decisive della storia asiatica, cercando di mettere in evidenza i vari elementi che appaiono dalle dinamiche complesse e in movimento che emergono. Se poi allarghiamo la visuale partendo da un’osservazione reticolare allora vediamo qualcosa di ancor più interessante. Il dispotismo orientale non è una categoria dello spirito né una condizione genetica, tanto meno qualcosa di caratteriale che accomuna tutti i popoli tra Mediterraneo e Pacifico. Esso è un fatto sociale e culturale che è andato conformandosi a partire da scelte che non erano obbligatorie: niente e nessuno ha impedito ai Persiani di scegliere la politeia greca. Negli organismi complessi esiste il principio del rinforzo, quello per cui “piove sul bagnato” e “i ricchi diventano sempre più ricchi”. Anche nella storia funziona così (e anche nei rapporti interpersonali). Dopo gli Imperi Mesopotamici si è assistito alla nascita di imperi più estesi; e questi, proprio per il loro peso, hanno influenzato le regioni più vicine. Ecco come nasce in forma diffusa il Dispotismo Orientale: lo ritroviamo in Giappone, nel Siam, in Nepal, in Indocina con i Khmer; lo ritroviamo in una forma sincretica in Medio Oriente dove si è presentato in una forma laica (spesso richiamandosi al socialismo) e nazionalistica.

Ma la storia non è unidirezionale e sempre si trova di fronte a possibilità che, pur senza recidere il legame col passato, si aprono verso nuovi orizzonti. Non servono rivoluzioni, che al contrario riportano indietro la realtà, ma saper cogliere le occasioni che si presentano, come ha fatto il Giappone alla fine del 1800, come hanno fatto Corea del Sud, Taiwan, Malesia, Thailandia e Singapore negli ultimi decenni del 1900. Ora sembra essere la volta di India e Cina. La storia è sempre aperta: “Anche il passato aveva un futuro” (P. Ricoeur). I fatti sono andati in un determinato modo, ma ciò non vuol dire che dovevano andare proprio in quel modo.

Il Dispotismo Orientale ha una caratteristica che non ritroviamo in altre forme di Autoritarismo, come il Caudillismo del Centro e Sud America e che ha a che fare con le dimensioni del Paese in cui esercita il proprio potere. L’Impero Turco, l’Impero Moghul e il Celeste Impero, con tanto di Città Proibita, hanno dichiarato in modo inequivocabile il senso di un rapporto tra il potere centrale e la sterminata massa di sudditi. Quanto già mostrato dall’Impero Persiano nei confronti delle città greche si ripete regolarmente negli episodi dei grandi imperi asiatici. Esemplare fu la battaglia decisiva tra inglesi e moghul il 23 giugno 1757 a Plassey, a nord di Calcutta: 50.000 uomini agli ordini del Nawab moghul contro solo 3.000 inglesi, ma a combattere furono solo 12.000 che di fronte all’energia messa in campo dai pochi nemici ben presto preferirono ritirarsi, avendo provocato la morte di soli 18 soldati inglesi. I grandi imperi contano sui numeri, ma assemblano persone con la forza, persone che pensano a tutto fuorché manifestare la propria fedeltà al comandante supremo. Era successo ai Persiani e succederà nell’Impero Austro-Ungarico nella Prima Guerra Mondiale, i cui soldati rappresentavano ben 11 nazionalità diverse con lingue diverse, e l’abbandono di 45.000 soldati cecoslovacchi fu solo la punta dell’Iceberg.

Il dispotismo appartiene alla storia, ma il dispotismo orientale include anche la geografia. L’Impero Romano era esteso quanto gli imperi asiatici, ma esso si muoveva nel solco della tradizione individualistica greca e l’attenzione romana ad allargare la cittadinanza ne mostrava la differenza. Gli imperi europei, dal Sacro Romano Impero all’Impero napoleonico, dovettero sempre fare i conti con lo sviluppo di forze periferiche che ne minavano la compattezza, fossero i Comuni o gli Stati nazionali.

Il dispotismo orientale unifica in sé tutte le caratteristiche negative delle diverse forme di dispotismo.

A livello politico esso pensa solo al potere centrale, per cui gli abitanti del territorio sottoposto sono solo sudditi e non cittadini, neanche parziali; per questo in campo militare sono trattati come massa da manovra e carne da macello. Non esiste un legame, neppure esile, tra la sterminata periferia dei sudditi e il compatto potere del centro. In questo contesto l’Impero è tatticamente forte, ma strategicamente debole, in quanto sempre in balia di una realtà politica nuova nello scenario, pronta a ingaggiare battaglia e a sostituirsi ad esso.

A livello economico (e dunque anche tecnologico) esso non ha alcun interesse a sviluppare crescita e innovazione, in quanto i numeri altissimi dei sudditi garantiscono sempre, costantemente, delle entrate enormi senza bisogno di fare nulla: il potere accumula ricchezze, i sudditi non sono nelle condizioni di sviluppare autonomia e creatività. Sono gli stessi limiti che si riscontrano nell’agricoltura latifondista o nella produzione monopolistica: senza mercato, senza concorrenza non ci sono né innovazione né sviluppo e a vincere saranno sempre e soltanto coloro che occupano l’apice del potere.

Delle tre regioni analizzate solo due sembrano aver raccolto la sfida che il mondo nel suo insieme ha lanciato a tutti e i risultati si vedono: Cina e India stanno ricucendo il rapporto con il loro passato, avendo compreso che quanto da loro realizzato nei secoli passati non è solo oggetto di sterile ammirazione, ma l’occasione per rivendicare un proprio ruolo nel mondo attuale. Dopo il cerchio dei classici e la linea dei moderni è l’ora della spirale: tornare indietro per andare avanti. Senza lamenti, rivendicazioni né sensi di colpa.

Per un approfondimento dei temi trattati:

D.S. Landes: La ricchezza e la povertà delle nazioni, Garzanti

J. Diamond: Armi, acciaio e malattie, Einaudi

B. Lewis: What Went Wrong? Phoenix

S. Miche, M. Beuret: Cinafrica, Saggiatore

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