L’Africa  Flussi e ritardi di un continente frammentato 








“Delle così dette regioni in via di sviluppo, l’Africa è l’ultima della classe”. (David S.
Landes).  

Se il Sud America è stato caratterizzato dal caudillismo e l’Asia dal dispotismo orientale, in Africa si è rimasti al livello di tribù e di clan. Ma la storia dell’Africa è di una tale complessità che è difficile districarsi tra i numerosi rami che la caratterizzano. Il colonialismo e la tratta degli schiavi sono stati spesso citati come causa di questo evidente ritardo, ma sempre maggiore è il numero di studiosi che trovano questi aspetti poco convincenti, perché troppo schematici.

In effetti, ancor più che negli altri continenti, in Africa l’evoluzione sociale ha seguito le più diverse strade ed è estremamente difficile ricondurre a uno o due elementi l’origine di questo ritardo. Non mi è possibile in queste 14 pagine ripercorrere la rete che ha contraddistinto la storia del continente, per questo mi limiterò a mettere in evidenza alcuni aspetti, talvolta dei dettagli, per introdurre nuovi elementi di riflessione, che non vogliono sostituire come cause del ritardo quelle sopra citate. Attribuire il ritardo africano alla tratta degli schiavi (europea) e al colonialismo significa chiudere la porta della ricerca, evitare di com-prendere la complessità di relazioni e fenomeni, avere già la risposta a tutto: in questo modo qualsiasi fenomeno, più o meno grande, ha già la sua spiegazione. 

Lo si è visto in occasione del conflitto tra Hutu e Tutsi per il quale si è voluto colpevolizzare il colonialismo belga, per gli studi che il governo europeo aveva fatto sulle origini delle due etnie. I morti furono tra 500.000 e un milione. 

Lo si continua a vedere, anche se in misura più populista che scientifica, per quanto riguarda l’acquisizione delle materie prime, come se il fatto che vengano comprate dai paesi occidentali li trasforma automaticamente in sfruttatori: e naturalmente non si cita il peso della Cina e del Giappone. 

Insomma, come per la Bibbia le azioni di Adamo ed Eva condannano tutta l’umanità al peccato originale, così per questi pseudointellettuali qualsiasi cosa negativa facciano gli africani essa è colpa degli Europei. 

Premetto che qui non è in gioco una discussione filosofica sul rapporto causa-effetto e sul libero arbitrio: parlerò di aspetti che da un lato riconducono a caratteristiche comuni dell’essere umano e dall’altro evidenziano specificità. Non contrappongo la teoria del “cattivo africano” a quella del “buon selvaggio”, ma cercherò di minare la certezza assoluta e la visione universale che quelle due teorie possono determinare. 

Procediamo da Nord a Sud.

Il Nord Africa fu popolato soprattutto da una popolazione cui fu dato il nome di Berberi e altre importanti che avevano nel deserto la loro patria, soprattutto i Tuareg e i Sarawi. La civiltà berbera fu tutt’altro che inconsistente e primitiva, stimolata dalla presenza Greca, Fenicia, Cartaginese e Romana: si ricordano nomi importanti di scrittori e filosofi, anche cristiani, come Terenzio, Apuleio, Tertulliano, Sant’Agostino. La crisi dell’Impero Romano indebolì anche questa parte di mondo e favorì la conquista araba. E cadde il silenzio. Come è avvenuto in tutte le aree occupate dagli arabi, l’Islam fu imposto e la cultura fu soppiantata dalla fede: il Corano aveva spiegato tutto e dunque potevano solo esserci delle letture che dovevano essere fatte sul solco del testo. E’ curioso come persino la pagina wikipedia sulla cultura araba riporti le più fantasiose notizie per cui tutto il sapere occidentale, dalla Divina Commedia di Dante al pensiero galileiano, sia solo il frutto di precedenti opere arabe. Se escludiamo gli studi di Avicenna e Averroè e qualche opera monumentale, il pensiero e l’arte arabi rimangono bloccati da quanto dichiarato nel Corano: è per questo motivo che nel lungo periodo la cultura araba si è completamente inaridita.

Se da un lato la conquista araba emarginò la cultura berbera e delle altre popolazioni, dall’altro il processo di assimilazione permise di dar vita a una società compatta, pur sempre nel nome dell’Islam: oggi la fusione tra berberi e arabi è un dato di fatto. In realtà chi ha subito e subisce una discriminazione sono coloro che non appartengono alla fede musulmana: gli ebrei hanno lasciato il Nord Africa, mentre, i Copti, gli eredi degli Antichi Egizi, di religione cristiana, che rappresentano il 15% della popolazione egiziana, sono da sempre vittime di soprusi e vessazioni. L’islamizzazione del Nord Africa ha rafforzato il processo di omogeneizzazione iniziato dai Romani, subordinando l’appartenenza etnica e tribale alla fedeltà allo Stato e alla Religione. Sono rimasti fuori soprattutto i Sahrawi e i Tuareg: i primi, seppur non numerosi, hanno dovuto cedere di fronte alle pretese del Marocco e i secondi in Algeria e in Libia, islamizzati ma con culti tradizionali, hanno rappresentato un popolo forte e padrone del deserto, con una società feudale e schiavista, entrata in crisi con la modernizzazione realizzata infine anche in quelle aree. La loro presenza in Niger e Mali ne ha fatto un partner importante nella diffusione dell’Islam e della tratta degli schiavi, fenomeno antichissimo e consueto tanto che sembra a tutt’oggi proseguire, soprattutto in Mauritania.

A Sud del Sahara le cose cambiano e ci troviamo di fronte a una realtà che propone scenari fisici e umani molto diversi: siamo in quella che fu definita “Africa nera”. Esiste una fascia cuscinetto dove Islam e Cristianesimo si sono confrontati, tanto che ancora oggi è in quella fascia che la presenza integralistica islamica si presenta più forte e aggressiva. A Ovest, in Nigeria, e a Est in Somalia.

Al di là però di questi aspetti non è il confronto religioso quello che caratterizza la conformazione storico-geografica qui presente: è maggiormente il conflitto etnico e tribale, o perlomeno la pretesa etnica e tribale, a incidere profondamente.

L’elemento più significativo riguarda il popolo Bantu presente soprattutto nel Golfo di Guinea che ha cominciato secoli prima della colonizzazione europea a spostarsi verso Est e verso Sud. Nessuno oserebbe oggi mettere in discussione la presenza Bantu in Africa del Sud, eppure secondo criteri nativisti-indigenisti essa pone grossi problemi. Nella loro discesa verso il Sud essi dovettero confrontarsi con i popoli che da sempre (o quasi) abitavano quelle terre: i Boscimani, gli Ottentotti e i Pigmei. Ebbero la meglio e oggi questi gruppi sono fortemente ristretti ed emarginati: i Boscimani (San o Khoi) sono oggi 100,000, gli Ottentotti circa 15.000 e i Pigmei 250.000 (occupando un’area notevolmente più estesa).

Ciò che successe fu una cosa estremamente semplice e tipica dell’evoluzione delle comunità umane, ovvero il fatto che quando società meno complesse entrano in contatto con comunità più complesse, queste tendono ad imporsi o attraverso forme di assimilazione o, come in questo caso, di sottomissione.

La presenza Bantu in tutta l’Africa sub-sahariana diffuse quelle che erano caratteristiche originarie di quella popolazione, ovvero la grande frammentazione in tribù e clan che comportava inevitabilmente una serie di conflitti. Per fare solo un esempio, ai tempi dell’apartheid in Sud Africa il maggior numero di vittime si registrò non nel conflitto tra bianchi e “neri”, ma nel regolare e continuo scontro tra due comunità bantu, gli zulu che si erano insediati in tempi più antichi e i più recenti xhosa. Ovviamente quando comparvero gli europei, prima i boeri e poi gli inglesi e successivamente anche i tedeschi, le cose si complicarono, ma il quadro conflittuale era già stato definito da secoli.

Tutta la storia dell’Africa sub-sahariana è caratterizzata da questo continuo scontro etnico, tribale e tra clan.

Per rendersi conto di come sia complessa e articolata la rete dei gruppi che troviamo nell’Africa Meridionale ecco qui un elenco delle principali componenti:

Sudafrica: Ngoni (Zulu, Swazi, Ndebele, Xhosa), Sotho, Tsongha.

Zimbabwe e Botswana: Shona, Tswana, Ndebele.

Namibia: Ovambo, Kavango, Herero, Damara, Nama. 


Zambia: Nyanja-Chewa, Bemba, Lozi, Lunda, Luvale, Nkoya, Tumbuka, Tonga e Kaonde.


Mozambico: Shangaan, Chokwe, Manyika, Sena, Makua.



Leggermente diversa è la realtà del Madagascar che è costituito poi da 18 gruppi etnici principali, di cui però la componente originaria non è africana ma proviene dall’Indonesia e dalla Malesia, come dimostra anche la lingua.

La stessa situazione, di confronto etnico, si verifica anche nell’Africa Centrale, la regione che ha visto il genocidio in Ruanda.

Dalla Liberia a Ovest fino all’Etiopia a Est, passando per il Congo, abbiamo assistito e continuiamo ad assistere a rivoluzioni, guerre civili, scontri che, al di là delle giustificazioni ideologiche, rimandano all’appartenenza etnica.

Spesso gli Stati Europei vengono accusati di aver creato delle Nazioni a tavolino tracciando delle linee sulla cartina geografica: guardando però la complessità di etnie, tribù e clan cui ho accennato sopra ci si rende conto che l’alternativa sarebbe stata quella di lasciare le singole realtà etniche a fronteggiarsi come avevano fatto da sempre. Se di errore si tratta esso era di ingenuità, dal momento che presupponeva la convinzione che un sistema moderno di relazioni tra gruppi diversi fosse praticabile, perché comprensibili i benefici che ognuno ne avrebbe tratto. Purtroppo la divisione etnico-tribale continua a pesare nei tentativi a ripetizione che ogni Stato cerca di fare per dare un futuro al proprio Paese.

Continua a pesare ad esempio nella gestione del potere così come nella stessa gestione degli aiuti.

In ogni paese la gestione del potere tende a vedere protagonisti i diversi clan.

E’ successo recentemente anche in Libia dopo la caduta di Gheddafi, quando è scoppiata una guerra civile che, nonostante la popolazione sia principalmente araba e berbera, vede in campo milizie tribali, in cui anche queste comunità sono divise.

E’ successo nel Congo (ex-Zaire), dove 300 tribù si contrastano con l’influenza delle comunità simili dei paesi vicini. Qui esemplare fu la storia del dittatore Mobutu, padre della “decolonizzazione coloniale” che impose nomi ancestrali, favorì la religione tradizionale animista, riportò un toponimo antico come Zaire, creò un esercito e una burocrazia smisurati. E, naturalmente, riempì i propri conti svizzeri di enormi quantità di denaro: un cleptocrate. Come lui molti sono stati i Capi di Stato africani che hanno meritato il nome di cleptocrati. Ciò che però ritengo di particolare interesse non è tanto la corruzione e lo strapotere di questi leader, quanto, come ricordano Diamond e Landes, l’introduzione su un piano “statuale” del sistema delle chefferies: le c. sono presenti nelle società segmentarie, cioè nelle società divise in clan, sottoclan, lignaggi ecc., con distinzioni di rango” (Treccani)”. In questo tipo di organizzazione il capo accumula parte dei beni prodotti dall’intera comunità, ma ha l’obbligo di ridistribuirli ai suoi sudditi o in occasioni rituali o durante carestie, epidemie ecc.(Treccani). La redistribuzione da parte di questi cleptocrati è però veramente modesta.

Il nodo della questione sta nel fatto che quel sistema è tipico di piccole società di villaggio ed estenderlo a livello di realtà geograficamente estese in cui lo Chef non è il capo di un villaggio ma il capo di una nazione e di uno Stato comporta l’appropriazione di ingenti ricchezze, la distribuzione esclusivamente tra i membri del clan e di quelli vicini e infine il non riconoscimento di quel potere da parte della maggioranza dei sudditi. Guerre, civili e non, rivoluzioni, violenze diventano una caratteristica dominante di queste realtà.

Il caso più eclatante però, oltre a quello del Congo, riguarda lo Zimbabwe dove per 40 anni ha governato il dittatore Mugabe, che ha distrutto il paese portandolo sull’orlo della rovina e causando la fuga di centinaia di migliaia di abitanti, raggiungendo un’inflazione record a livello mondiale superiore anche a quella del Venezuela. La gestione del potere da parte di Mugabe è stata molto simile a quella di Mobutu: cleptocrazia in nome della decolonizzazione coloniale. Eppure, quando il paese era ancora Rhodesia, le condizioni di vita erano accettabili, ma gli anticolonialisti erano divisi secondo linee etniche, il gruppo di Mugabe per gli Shona e il gruppo di Nkomo per gli Ndebele.

Il confronto armato è successo in Uganda, in Benin, in Liberia, in Chad. E’ successo in Nigeria, dove, dopo il tentativo separatista degli Igbo in Biafra, il Paese ha continuato a vivere tra colpi di stato, rivolte e governi militari, con il recente contributo degli estremisti islamici, soprattutto al Nord. Quando sembrava che con il nuovo regime la democrazia prendesse uno slancio inaspettato, essa è stata sottoposta a dura prova dalle numerose violenze interetniche che hanno trovato la massima espressione nella così detta Guerra del Delta del Niger.

Nessuno Stato e nessuna regione all’interno di ogni Stato, in Africa, è rimasta immune da questa realtà conflittuale: la presenza dell’Islam negli Stati centro-settentrionali ha impresso un’accelerazione dei conflitti raggiungendo il culmine in Libia e soprattutto in Somalia. Negli Stati a maggioranza islamica come pure negli altri Stati protagonista è sempre stato e continua ad essere lo scontro interetnico, a volte anche tribale.

Occorre tornare alla decolonizzazione che fu sempre vissuta dai protagonisti in chiave ideologica, fallendo completamente in tutti i campi e in tutti gli Stati. Non si tratta di contrapporre alle accuse che individuano i colpevoli nell’Occidente una tesi opposta che vede solo responsabilità locali: non dobbiamo farne un problema morale, individuando colpevoli che, come di consueto, servono solo a scaricarsi la coscienza.

Interrogarsi sulla decolonizzazione e capire come si siano annodati i fili delle diverse reti che collegavano i diversi paesi dentro e fuori dal continente serve a comprendere quali sono i limiti e le difficoltà che sono risultati decisivi.

Non si può riscrivere il passato, ma si possono riconoscere quali meccanismi hanno operato maggiormente in senso negativo, per vaccinarsi qui e lì. Ho già accennato ad uno di questi e si chiama ideologia. La decolonizzazione si è realizzata secondo alcuni presupposti che ne hanno condizionato lo sviluppo.

Il primo: identificare nei paesi colonialisti la causa dei ritardi, per cui sarebbe bastato tagliare il legame con quelli per avviare un trend positivo che avrebbe visto i paesi africani concorrere sullo stesso piano con i paesi più ricchi.

Il secondo: poiché non esiste il vuoto, né culturale né politico, non ci si inventa un futuro senza fare i conti col passato e per questo, rifiutando tout court l’esperienza coloniale, i nuovi Stati e i loro leader si sono avvicinati all’esperienza socialista dell’URSS che si poneva, nel quadro della Guerra Fredda, come alternativa all’Occidente.

Il nazionalismo si colorò di socialismo e si procedette a una gestione centralizzata del potere, politico ed economico: i vecchi proprietari furono in genere espropriati e le royalties che provenivano dallo sfruttamento delle materie prime andarono ad arricchire le élite che, come detto poco sopra, si trasformavano in élite cleptocratiche. Come avveniva in URSS e negli altri paesi socialisti, il fallimento dell’economia centralizzata comportò stagnazione e sottosviluppo da un lato e dipendenza dagli aiuti dall’altro, aiuti che però contribuivano ad aumentare stagnazione e sottosviluppo. Come ormai riconosciuto da alcuni anni e da un numero sempre maggiore di organizzazioni.



La decolonizzazione è stata un fenomeno elitario che ha allargato la forbice tra gruppi dirigenti e popolazione: il resto lo hanno fatto l’ideologia e la religione. Eppure la stagione dell’indipendenza aveva fatto sognare. I gruppi dirigenti comprendevano uomini animati da un forte idealismo che mentre guardava agli africani come a un’entità unica ed omogenea era incapace di vedere la incomparabile frammentazione della società civile. Alcuni di loro dettero vita a iniziative culturali di prim’ordine come il fenomeno della Négritude che vide il futuro presidente del Senegal Leopold Senghor affiancare il poeta antillano Aimé Cesar. L’idea era affascinante e ricordava il Romanticismo europeo, ma non seppe trasformarsi in un’iniziativa politica realistica, almeno sul piano continentale. Sénghor fu, primo tra gli africani, ad essere ammesso alla celebre Académie Française e ispirò qualche positiva iniziativa nel suo paese, ma i risultati furono modesti e anch’egli si avvicinò al così detto “socialismo africano” che al di là di belle frasi ebbe un chiaro intento anticapitalistico.

La Dichiarazione di Arusha del 1967 ne rappresentò il punto di riferimento; in essa si riprendono i principi del comunismo russo:

- Ogni cittadino ha diritto alla libertà di parola, associazione, movimento e fede, nel contesto delle leggi vigenti;


- Indipendenza è contare sui propri mezzi, non su doni e prestiti monetari esterni. Si nazionalizzano le banche, quasi tutte le industrie, le compagnie di assicurazione, ma l’intervento più impegnativo è quello in campo agricolo, che è il fulcro dell’economia del paese.

- La rivoluzione agraria si chiama ujamaa vijijini, socialismo nei villaggi. 


-L’insieme delle riforme messe in cantiere richiede uno Stato forte che diriga i cambiamenti, così come il benessere di tutti può essere garantito solo da un governo stabile e coeso.

-Il partito unico, riconosciuto tale dalla Costituzione adottata nel 1965 è la soluzione al problema.

-La simbiosi partito-stato porta ad una concentrazione di poteri che si tradurranno nella fusione tra funzioni amministrative e di partito.

Tutti i siti su Internet riportano questa frase:

«Inerente nella Dichiarazione di Arusha c'è il rifiuto del concetto della grandezza di una nazione come cosa distinta dal benessere dei suoi cittadini; e il rifiuto, anche, del benessere materiale come fine. C'è l'impegno a credere che nella vita ci siano cose più importanti dell'ammassare ricchezza, e che se la ricerca della ricchezza entra in conflitto con cose come la dignità umana o l'uguaglianza sociale, queste ultime hanno la priorità».



E andò come in Unione Sovietica che nel 1936 aveva promulgato la Costituzione più democratica del mondo: oppressione, dittatura, povertà.

Tornando al concetto di Négritude esso mostra l’orgoglio di essere africano senza però riuscire a evidenziare le caratteristiche di questa qualità, ricondotta attraverso letture di autori europei a grandi esperienze storiche del passato. Non c’è dubbio che tali esperienze mostrino come l’Africa non è stata solo capanne e vita primitiva, ma che ha saputo dar vita, come in tutto il mondo, a Regni importanti. E’ mancata però la capacità di leggere il mondo occidentale al di fuori di uno schematica e semplicistica visione oppressiva, negandolo e dunque rifiutando un confronto reale. L’Occidente pubblicava i libri del movimento, e il movimento sfruttava questa libertà europea per poi di fatto negarla in patria.

Un’ultima riflessione, rivolta ai moderni sostenitori del “politicamente corretto”: perché dobbiamo astenerci dall’uso della parola “negro”, quando questo termine è rivendicato con orgoglio proprio da esponenti “negri”?





Non vanno poi dimenticati alcuni aspetti culturali che rappresentano ancora oggi delle vere e proprie strutture difficili da scalfire, come tutte le strutture culturali sedimentate nel corso dei secoli e dei millenni. Una società sostanzialmente rigida non risulta sconvolta da comportamenti che ne conformano il modo di esistere, ma quando questa società si apre, e ciò è successo in misura enorme dalla fine del colonialismo, allora il corpo sociale entra in fibrillazione e, se non vuole accettare il confronto o non ci riesce, i risultati saranno drammatici.

Il predominio maschile, la subordinazione totale della donna, il ruolo dominante di famiglie e clan hanno aggravato le non facili condizioni di parte

Pensiamo alla diffusione dell’AIDS legato a pratiche sessuali spesso violente, alle esigenze maschili assolute, al passaggio del virus dalla madre al feto: “Le donne hanno già tanti problemi per la testa, perché mai dovrebbero pensare a qualcosa che ci mette dieci anni a ucciderti?” (New York Times, in Landes: La ricchezza e la povertà delle nazioni). E al diavolo i preservativi che ai maschi non piacciono. E anche Ebola ha meccanismi simili a quelli dell’AIDS.

Ho parlato anche di come le divisioni etniche, tribali e di clan, determinino grossi problemi nella gestione degli aiuti: è noto infatti che questi arrivino nei vari villaggi (o campi profughi) e qui vengano gestiti dai capi del villaggio e dai maschi a loro legati. Donne e bambini, oltre ai maschi di gruppi minoritari, raccolgono solo le briciole.

Dalla fine del colonialismo la complessità delle relazioni sociali dentro l’Africa e tra l’Africa e il resto del mondo è andata crescendo a dismisura. Naturalmente la fine del colonialismo non ha significato la fine della presenza occidentale, anche perché esistono quantità di materie prime utili allo sviluppo economico e commerciale che solo i paesi più sviluppati sanno valorizzare. Con la globalizzazione anche altre realtà mondiali si sono affacciate al mercato africano, prima il Giappone, poi nazioni orientali e infine, in misura massiccia, la Cina. I paesi più sviluppati, europei e non europei, hanno interessi, e allo stesso tempo favoriscono l’attività economica locale; ma le relazioni sono andate coinvolgendo sempre di più i paesi africani tra di loro. E qui emergono aspetti che mostrano come la naturale conflittualità etnica e tribale abbia cominciato a coinvolgere anche il principio di nazionalità.

E’ curioso come noi, soprattutto in Europa e in Nord America, ci preoccupiamo per emarginare il così detto razzismo: una pagina del Corriere dello Sport che mostrava due campioni milionari di colore, accompagnata dalla scritta “Black Friday”, ha suscitato scandalo e creato rimorsi nelle nostre coscienze. Basterebbe andare in giro per i vari paesi dell’Africa e leggere i loro quotidiani per rendersi conto di cosa sia veramente il “razzismo”. A fine agosto sui giornali di diversi paesi dell’Africa Australe sono apparse notizie sulle violenze fatte da neri sudafricani nei confronti di lavoratori nigeriani, tanto che non solo ci sono stati dei morti, ma un discreto numero di nigeriani è stato costretto a tornare in patria, provocando ritorsioni e vendette a danno dei sudafricani in Nigeria. Non solo, ma i numerosi emigrati dello Zimbabwe sono oggetto di furti e attacchi da parte dei locali sudafricani, che sfruttano la debolezza di quelle persone spesso in condizioni non del tutto regolari. La storia della corruzione in Sudafrica che ha visto la ex-moglie di Mandela tra i protagonisti è istruttiva di come la fine del colonialismo abbia permesso la creazione di gruppi benestanti legati al potere. La violenza in quel paese è altissima e riguarda le comunità più sfavorite, tanto che la Governatrice dello Stato del Capo (eletta dal voto popolare) ha dichiarato che il tempo della dominazione bianca ha avuto anche aspetti positivi. Ha rischiato un processo, perché in tutta l’Africa il potere si basa sulla demonizzazione dei vecchi colonialisti. Anche se è passato mezzo secolo.

E’ interessante fare un confronto tra due paesi petroliferi di due continenti diversi, Nigeria e Indonesia; entrambi ex-colonie, entrambi in via di sviluppo, entrambi guidati da leader forti provenienti dall’Esercito. Nel 1965 il PIL pro-capite della Nigeria era maggiore di quello dell’Indonesia, 25 anni dopo questo superava il PIL nigeriano di tre volte.

Sempre colpa dell’Occidente? Sempre colpa delle Multinazionali? D’altra parte non si può ridurre tutto a diverse caratteristiche genetiche tra gli orientali e gli africani. Anche in Indonesia esistono problemi ed esistono violenti islamisti nello stato di Aceh a Sumatra, ma le prospettive dello Stato asiatico sono molto più rosee del grande stato africano.

Ogni paese africano ha una sua storia di conflitti che qui non voglio riportare: chi fosse interessato può consultare le pagine specifiche di Wikipedia: non sono saggi storici, ma forniscono un’idea.

Prendiamo le colonie portoghesi che sono state le ultime ad ottenere l’indipendenza dopo la Rivoluzione dei Garofani in patria del 1974. In fondo il Portogallo ci teneva a mantenere le sue colonie, visto che si deve a molti suoi navigatori la circumnavigazione dell’Africa e l’apertura di relazioni con Africa e Asia, da Bissau a Luanda a Maputo a Goa fino a Macao. Forze di liberazione si organizzarono e lottarono le une contro le altre dando ai conflitti un carattere internazionale che vide coinvolti direttamente l’URSS, vista come punto di riferimento ideologico, e la Cina, dopo la frattura tra questi due paesi comunisti. Di converso entrarono in gioco anche il Sudafrica, gli Stati Uniti e persino Cuba che, nonostante i grossi problemi economici, inviò ben 50.000 soldati: anche il piccolo stato della Guinea (un sesto dell’Angola) fornì il suo appoggio.

I movimenti che si contrapponevano nascevano su basi etniche, ricevendo endorsement e aiuti dai vari paesi a seconda dello schieramento internazionale: poiché l’URSS mirava a estendere il comunismo a livello internazionale alcuni gruppi ricevevano l’appoggio di paesi non comunisti come USA e Sudafrica perché combattevano contro gruppi appoggiati dai Paesi comunisti. Gli interessi economici erano legati a questo: l’espansione del comunismo avrebbe danneggiato fortemente i paesi che avevano un’economia capitalistica.

Va dunque rivista la tesi cara a molti appassionati per cui i problemi africani sono stati causati prima dal colonialismo e poi dalla voracità delle multinazionali: grandi paesi, dagli USA all’Europa alla Cina non sono immuni da responsabilità, ma queste rinviano direttamente -come sempre è e dovrebbe essere- a ragioni interne. L’esempio contrapposto dei paesi asiatici, compresi Vietnam e Mongolia, lo dimostra in modo chiarissimo.

Le guerre tra stati africani sono sostanzialmente scomparse con la caduta del comunismo in Europa e la penetrazione cinese rientra nelle regole del gioco: la globalizzazione ha di fatto abolito lo scontro frontale ideologico e l’unico elemento conflittuale mondiale riguarda il terrorismo islamico che incontra un rifiuto generalizzato. Ciò non vuol dire che non sopravvivano guerre e conflitti interni, ma questi riportano a quella che è stata la storia dell’Africa da sempre e parlano di clan, tribù, etnie.

Certamente non tutto il panorama del continente vive una situazione di violenze intestine e in certe aree sembra che la situazione abbia imboccato una via d’uscita: è il caso del Marocco, del Senegal, del Botswana, del Kenya, dello Zambia, del Gabon, dell’Etiopia. Ma in Africa i tempi sono lunghi ed è successo più volte che le speranze siano andate deluse. Ovunque l’ONU e gli Enti, Governativi e non, puntano sulla soluzione delle controversie rendendo sempre più difficile lo scontro aperto. E’ successo in Sudan con la nascita del Sudan Meridionale dopo decenni di guerra, è successo e succede ogni giorno in tutti quei luoghi che sono saliti alla ribalta della cronaca negli anni scorsi: le mine del Mozambico, i bambini soldato del Golfo di Guinea, il conflitto irriducibile tra Etiopia e Eritrea, le violenze dentro l’immensa Repubblica del Congo ex-Zaire. Purtroppo quando scompare un dittatore e si cerca la via pacifica e democratica, occorre sempre fare i conti con rivalità ancestrali nei confronti delle quali lo storico scontro tra Francia e Germania impallidisce. Ma oggi queste due grandi nazioni hanno smesso di confrontarsi e anzi sono diventati i paesi leader dell’Europa: due guerre mondiali hanno pesato, ma il peso maggiore lo si deve alla pratica della libertà, politica ed economica. In Africa purtroppo la libertà non è moneta corrente. La libertà economica è scelta recente e deve fare i conti con il peso dello Stato e il ritorno di fiamma del socialismo che ogni tanto riappare sulla scena. La libertà politica ha ben poca storia in tutto il continente, caratterizzato dalla presenza continua di dittatori e contro-dittatori; troppo spesso la libertà politica si riduce al voto, mentre libertà di stampa, di organizzazione e separazione dei poteri sono elementi aleatori.

Nonostante la maggior parte dei leader africani dall’inizio della colonizzazione abbia studiato all’estero spesso in Università importanti (Sénghor a Parigi, Nyerere a Edimburgo), la loro proposta culturale si scontra con l’esigenza di centralizzare la gestione del potere, favorendo gruppi familiari ed etnici, e dunque con una politica che muove grandi quantità di denaro, utilizzato principalmente per garantirsi il potere (difese e prebende) e spostando di poco il livello di alfabetizzazione della popolazione. La globalizzazione sta offrendo opportunità notevoli che permettono di sopperire alle inadempienze dello stato come nel caso di Kigali, capitale del Ruanda, un paese molto povero e ferito dalla storia recente, che sta vivendo un momento di gloria per i notevoli salti fatti in campo informatico cablando tutta la regione. Ma lo sviluppo delle telecomunicazioni è stato notevole un po' dappertutto, permettendo a gran parte della popolazione di allargare la propria visione del mondo. Come ogni altro aspetto che riguarda la vita sociale africana anche questo non significa aver chiuso con il passato e, come spesso si è visto in ogni settore, non è difficile assistere a “due passi avanti e tre indietro”.

Ho cercato in queste pagine di mettere in discussione gli stereotipi indotti dal politicamente corretto riguardo all’Africa, un continente dall’enorme potenziale ma che non l’ha saputo sfruttare e al contrario ha vissuto decenni di difficoltà che sembrano non voler terminare. Ho cercato di mettere in discussione quegli stereotipi che vogliono criminalizzare l’Occidente per le difficoltà incontrate dai paesi africani che invece sono solo attribuibili agli stessi africani. Anche questi hanno le loro attenuanti, ma a nulla serve il lamento e la fuga dalle proprie responsabilità: non c’entrano né il colonialismo né le multinazionali, ma le classi dirigenti africane e le loro politiche.

Vorrei concludere con un riferimento all’Italia che, tra i paesi colonialisti, non è certo stato un primo attore. L’ideologia usa gli stereotipi per non guardare in faccia la realtà. La conquista da parte italiana dell’Etiopia nel 1936 è stato un episodio importante della nostra modesta politica coloniale: essa è stata condannata come esempio di oppressione, resa ancor più grave dal fatto che fu operata dal Fascismo (Bell’abissina, aspetta e spera…).

Se vogliamo rifuggire dal moralismo e dall’anacronismo bisogna dire che storicamente essa fu un atto contrario a quanto stabilito dalla Società delle Nazioni (nonostante un precedente accordo con Londra), anche se atti del genere ce ne furono altri, e comunque l’Italia subì le famose sanzioni.

Detto questo va però ricordato un fatto che normalmente non viene citato e che riguarda la natura dell’Impero dell’Etiopia, un Impero per l’appunto. Dal novembre 1930 è imperatore Hailé Selassié. Un Impero è uno Stato che sottomette più popolazioni, infatti alla fine del 1800 esso occupava solo una parte di quella che sarebbe stata l’Etiopia di Hailé Selassié e consisteva nella sola regione di Scioà. All’inizio del 1900 furono conquistati i territori degli Oromo, il Tigrè e l'Amara: l’Imperatore non si trattenne, dando vita a massacri, mutilazioni e schiavizzazioni. Ciò che andrebbe spiegato è perché l’imperialismo etiopico deve risultare assolto, mentre l’intervento italiano deve essere trasformato in un crimine?

L’Italia fu una potenza coloniale e fece quello che tutte le potenze occupanti e vincitrici (coloniali e non) fanno quando conquistano un territorio: il concetto di gloria è relativo al contesto e dunque anche all’epoca in cui certi avvenimenti si realizzano. Per conquistare un territorio, occuparlo e dirigerlo occorre sporcarsi le mani e questo vale per tutti, per gli Incas, gli Spagnoli, i Bantu, gli Arabi, i Mongoli, i Khmer, gli Shona dello Zimbabwe, e certamente Francesi Inglesi Tedeschi e Italiani.

Esiste sempre un costo umano e civile in ogni conflitto e gli italiani fecero come altri, ma sicuramente non occorre dimenticare lo sviluppo portato in Libia, Eritrea e Somalia (meno in Etiopia vista la incombente guerra mondiale) e questo fu fatto principalmente per interessi italiani, ma favorendo anche parte della popolazione. Gli Ascari eritrei, inquadrati nell’esercito italiano, erano più di 200.000 e parteciparono dando il loro contributo, sapendo che se catturati dall’Etiopia questa avrebbe loro amputato una gamba e un braccio. Il Presidente della Somalia Siad Barre studiò a Firenze e la comunità somala ed eritrea presente in Italia risale agli anni’50 e ’60 ed è composta di persone che si sono integrate perfettamente, riconoscendo il proprio valore (molti sono medici) e ringraziando l’Italia per le opportunità loro offerte.

Ma è un argomento tabù per chi è abituato a concepire la storia in termini morali, sia che si parli dell’India dell’America della Libia o dell’Algeria e se provi a proporre una visione complessa, sei subito criminalizzato. La verità storica ha però bisogno di sempre maggiore complessità. Tra i tanti meriti del crollo del comunismo va ricordata la morte dell’ideologia, anche se rimangono spasmi di un corpo morto.

Ripeto: la storia non può essere affrontata con criteri morali. Non voglio qui sviluppare questo argomento (non è il luogo), ma solo fornire uno stimolo a una riflessione più ampia e complessa, e dunque più seria. Troppo spesso ci siamo limitati a un approccio veloce, fatto secondo gli interessi di parte, che passava ad essere da semplice approccio immediata conclusione.

E’ il male dell’ideologia.

E in Italia, più che altrove, ne abbiamo fornito esempi su esempi. Il dramma del nostro paese non sta solo nella trasformazione della cultura in ideologia, ma soprattutto nel fatto che questo è avvenuto in maniera quasi totale dentro le aule scolastiche, dove si dovrebbe insegnare ai giovani ad esercitare uno spirito critico. Per esercitarlo però occorre avere una visione complessa degli avvenimenti e dei personaggi: alleata del moralismo l’ideologia spara sentenze che sono presentate come argomenti. Esse non sono un punto di partenza, ma diventano l’essenza e la spiegazione di ogni fenomeno, così dagli anni ’70 intere generazioni sono state educate al pacifismo senza se e senza ma (non alla pace che può prevedere anche la guerra), alla condanna della nostra storia (sfruttamento, schiavismo, colonialismo, fascismo), al rifiuto dell’Occidente e soprattutto degli Stati Uniti, alla condanna dell’industria e dell’iniziativa privata (il maledetto capitalismo), alla critica alla politica senza aver chiarito cosa sia una liberaldemocrazia, alla critica sempre e comunque della Chiesa cattolica, al rispetto per le altre religioni e gli altri popoli anche quando praticano i più orrendi rituali, alla giustificazione di iniziative violente in patria e all’estero, e via discorrendo.

Un modello di nuovi orizzonti fuori dall’ideologia si è visto proprio nel continente “nero”, in Sudafrica, quando Mandela ha sconfessato la lotta armata e De Klerk l’apartheid, ponendo il paese sulla strada della democrazia, istituendo la Commissione per la Verità e la Riconciliazione: il Premio Nobel loro attribuito è stato il giusto riconoscimento. Ciò che è successo dopo, soprattutto in termini di corruzione, mostra come in Africa nessun passo avanti è garantito una volta per tutte. Ciò nonostante un po' ovunque spuntano iniziative costruttive che cercano di lasciare indietro i consueti dissapori, i conflitti e le vendette: purtroppo i tempi non saranno brevi.

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