La crisi dell’Italia
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Nodi e flussi che hanno impedito
all’Italia
di gareggiare con gli altri Paesi
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Il declino dell’Italia, la sua
decadenza, sono un dato di fatto relativamente ai cambiamenti avvenuti tra la
prima e la seconda metà del II millennio: tutti gli storici concordano. E in
genere tutti individuano due cause fondamentali di questo declino: (1) la
mancata organizzazione statale e unitaria degli Stati in cui era divisa la
penisola; (2) la centralità dei commerci che si è spostata dal Mediterraneo all’Atlantico.
Sono due cause condivisibili ma che
riducono fortemente la complessità di una realtà che non richiede ulteriori
cause o concause, ma un maggior approfondimento, maggiori interconnessioni e
nuovi elementi: il tutto non per arrivare a una spiegazione (ex-plicazione)
più “vera”, ma per aver maggiore cognizione della complessità dei fenomeni
storici.
Ad esempio, per rimanere in quelle
che sono considerate le due cause decisive, non si può trascurare il fatto che
esse siano legate e che, semplificare per semplificare, in fondo la seconda è
una conseguenza della prima. Infatti i paesi che si dettero un’organizzazione
unitaria e statale furono Spagna, Francia e Inghilterra e furono proprio questi
Stati a sviluppare il commercio sull’Atlantico, sulle cui rive essi erano, o in
gran parte o totalmente, adagiati.
Parlando di Italia occorre affrontare
qualche aspetto che serva da contorno e che permetta di avvicinarci
all’argomento. Con certezza il termine Italia è un dato geografico, nel senso
che già i Romani usavano la parola per indicare il territorio tra le Alpi e la
Sicilia.
In quanto realtà geografica i confini
non possono che essere approssimativi.
Se abbandoniamo però l’ambito
geografico e pensiamo a un’Italia che abbia un significato più denso allora
vediamo che questa densità è stata patrimonio all’inizio di poche persone che
sono aumentate solo in epoca risorgimentale, quando la maggior parte degli
abitanti della penisola aveva difficoltà ad identificarsi in una vera e propria nazione.
Il concetto di Nazione è un concetto
relativamente moderno, risalente a un migliaio di anni, e lo si può trovare con
maggiore facilità in Inghilterra e in Francia, ma anche in questi casi fu
necessario un processo non semplice e non veloce.
Alcuni aspetti vengono in genere
presi in considerazione per associare un popolo a una nazione, ad esempio la
comunione di storia, di usanze, di religione e soprattutto di lingua.
Nella storia un ruolo importante è generalmente svolto da figure eroiche, personaggi che si sono distinti per proteggere e diffondere l’idea di nazione.
Pensiamo a Giovanna
d’Arco, al Cid Campeador, a Giovanni Cuor di Leone. In Italia non abbiamo avuto
eroi in cui riconoscerci, solo qualche santo come Francesco, Chiara e Caterina.
Anche i navigatori, a partire da Colombo, hanno inorgoglito un po' tutti noi.
Si è dovuto aspettare
il Risorgimento per creare retrospettivamente i nostri eroi, come
Masaniello, Perasso detto Balilla, Pietro Micca, Amatore Sciesa e altri fino a
Silvio Pellico (autore de Le mie prigioni) e poi in occasione della IV
Guerra d’Indipendenza (la 1° Guerra Mondiale) Enrico Toti, Fabio Filzi, Cesare
Battisti. Una creazione retrospettiva purtroppo non permette di dare
sostanza a un sentimento e dunque impedisce di creare un’identità.
Mazzini, Garibaldi e
altri svolsero un ruolo importante e decisivo come pure la dinastia dei Savoia
ma non furono sufficienti a catalizzare e conformare il sentimento di un
popolo: portarono all’Unità politica ma non all’identità nazionale. Gli eroi
francesi, spagnoli e inglesi avevano operato 500 anni prima permettendo che
quel seme fruttificasse.
Tutto ciò ha impedito
e impedisce ancora oggi a noi che ci diciamo italiani di avere un forte spirito
comune: tra le frammentazioni politiche precedenti e l’ideologia del ‘900 non
siamo né popolo né nazione. La confusione tra il concetto di nazione e le idee
nazionalistiche è stata un pretesto e dunque uno strumento che ha impedito al
popolo di avere una visione moderna della realtà, tanto che per decenni si è
guardato prima all’URSS (addà venir Baffone) e poi alla Cina maoista:
l’idea di nazione è stata lasciata nelle mani e nella bocca dell’estrema destra
(in particolare il Movimento Sociale Italiano) che l’ha usata in chiave
nazionalistica. E così anche la decolonizzazione italiana, dalla Libia alla
Somalia, è avvenuta nel peggiore dei modi possibili, con la coda tra le gambe e
un forte senso di colpa. Nessuno dei paesi colonialisti ha agito nella stessa
maniera perché in loro il sentimento nazionale (ripeto non nazionalistico) era
conformato e consolidato. L’abisso che c’è tra le ex-colonie britanniche e
quelle italiane ha radici storiche che il Novecento ha allargato.
Associare un popolo a
una nazione.
La lingua è
sempre stato un terreno comune e lo si è visto in Europa nel passaggio tra Alto
e Basso Medioevo. In Francia le lingue principali erano due, quella d’Oc del
sud e quella d’Oïl del nord,
ma non è di particolare interesse un’analisi sociologica delle parole che
venivano usate lungo la Loira, in Borgogna o Aquitania: la lingua diventa
espressione di una nazione solo quando produce testi di un certo valore
culturale. I dialetti non esistevano solo in Italia, ma a noi interessa parlare
della lingua colta che unifica i popoli e li obbliga a parlarla e a
comprenderla se vogliono vivere in quella società. Ed è per questo che dobbiamo
fermarci in Toscana.
Su questo fronte, quello della
lingua, l’Italia è stata la prima della classe. Il legame con il latino era più
stretto perché in fondo Roma era in Italia e la ricchezza linguistica, in
termini di lessico e di concetti, è incomparabilmente superiore alle altre
lingue romanze. Merito certamente anche dello sviluppo urbano e borghese della
nostra penisola. Già gli esordi furono interessanti ma non furono unici, se
pensiamo ad esempio alla lirica provenzale (in lingua d’oc), ma ciò che fu
decisivo riguarda i grandi esiti trecenteschi: Dante, Petrarca e Boccaccio. Non
si tratta di esaltare il loro stile e la loro cultura, ma di sottolineare la
ricchezza, la profondità, l’intensità, lo spessore di tre autori e in
particolare di tre opere che, essendo diverse ognuna dalle altre, segnarono il
contesto letterario del tempo.
La Divina Commedia è sostanzialmente
un poema epico ma di uno spessore che non tiene il confronto con le opere
epiche medievali, il Canzoniere esprime lo sviluppo in chiave lirica dello
scavo interiore, il Decamerone anticipa con la sua vena realistica il romanzo
moderno.
Non ho citato solo il valore delle
tre opere, ma anche dei loro autori. Tutti e tre avevano un’ottima formazione
culturale, conoscevano il latino, lingua nella quale si cimentavano
regolarmente e addirittura Petrarca era convinto che sarebbe stato ricordato
dai posteri per le sue opere latine non per la raccolta di poesie, che chiamò nugae
(inezie).
Nulla di tutto questo negli stati
nazionali che si stavano formando: in Inghilterra alla fine del Trecento
Chaucer scrive I racconti di Canterbury ispirandosi a Boccaccio, il
primo grande autore francese è Villon che visse e morì nel XV secolo, in Spagna
bisognerà aspettare anche di più.
La trasformazione dal latino nei
volgari e nel loro uso letterario coincide più o meno nelle diverse aree
geografiche dell’Europa Occidentale, ma in Italia si ha una concentrazione
varia e ricca. Ciò è riconducibile alla crescita borghese della nostra penisola,
soprattutto del Centro-Nord, alla costruzione di nuove città e all’allargamento
di quelle vecchie, dove una borghesia di artigiani, commercianti e banchieri
raggiunge livelli numerici e di qualità notevoli. La differenza tra Italia e
altri paesi sta proprio in questo atomico pullulare di persone che si trovano
unite da un patto (coniuratio, giuramento comune) e che per questo
possono sviluppare ampiamente la libertà e la creatività. Essi hanno l’obbligo
di rispettare le leggi della città, ma queste leggi sono state create da loro e
nei loro interessi: non sono costretti alle regole infrangibili e agli obblighi
di una monarchia assoluta. Certo c’è differenza tra la monarchia francese o
inglese e l’organizzazione del Sacro Romano Impero (la Germania per semplificare),
ma in un primo momento sono i Comuni italiani a mostrare al mondo cosa
significa libertà; e non si tratta solo del motto assai frequente per cui “la
città rende liberi” riguardante soprattutto le campagne dove vivevano i servi
della terra (gleba).
Si tratta infatti di libertà
economica, libertà politica, libertà culturale, ovvero ricchezza economica,
ricchezza politica, ricchezza culturale.
Mentre i Comuni italiani emuleranno
le Poleis greche, i comuni degli altri paesi dovranno accontentarsi di
un’autonomia amministrativa: la loro libertà risulterà limitata, ma non
compromessa e tanto meno cancellata. I Comuni italiani sapranno destreggiarsi
tra le infinite rivalità universalistiche di Papato e Impero, da cui si
distaccheranno sempre di più. Nel Trecento avranno esteso i loro confini al
contado e nel Quattrocento si trasformeranno in Stati regionali.
Francia e Inghilterra in quel periodo
sono impegnate in una guerra devastante, la Guerra dei 100 anni (1337-1453) che
sconvolgerà equilibri, territori e persone. Al termine però avrà allontanato i
due Stati dalla confusione feudale (la guerra era nata per la pretesa inglese
di avere diritti feudali sulla Francia e la Borgogna si schierò con gli
Inglesi) e avrà approfondito in ognuno la coscienza nazionale che darà
ulteriore impulso alla modernizzazione dei due Stati. La Francia acquisirà
quasi completamente la configurazione attuale, mentre l’Inghilterra con la nobiltà del tutto screditata soprattutto
dopo la successiva Guerra delle Due Rose vedrà l’affermazione della borghesia e
dello Stato centralizzato moderno sotto i Tudor.
Alla fine del 1400 i due Stati si sono rafforzati e modernizzati.
Spagna e Portogallo invece non sono progrediti né a livello
economico né a livello politico, ma hanno apparati che permettono loro di
lanciarsi nella sfida per il dominio dei mari verso territori sconosciuti.
Gli stati regionali italiani sono ricchi ma privi di una visione e
passano tutta la prima metà del secolo XV a combattersi tra di loro: solo
Lorenzo dei Medici (Il Magnifico) riuscirà a portare la pace in nome
dell’equilibro. Il grande politico, il grande mecenate, il grande poeta è il
simbolo di un’Italia che non si rende conto di come i tempi siano cambiati e di
come il mondo non sia più lo stesso. Il Magnifico porta la pace e aiuta la
cultura in un’estrema esplosione, ma segna il tramonto di un’epoca rappresentato
simbolicamente dai suoi versi più famosi:
” Quant’è bella giovinezza, / che si fugge tuttavia! / chi
vuol esser lieto, sia: / di doman non c’è certezza.”
L’unico intellettuale che
comprende ciò che sta accadendo è Niccolò Machiavelli, ma paradossalmente la
conferma della sua analisi segnerà la fine dell’indipendenza degli Stati
Italiani e l’inizio di una presenza straniera che completerà quel declino che
ormai è avviato accrescendo la distanza con gli altri stati europei. Questo
senso di crisi viene ben rappresentato da una cultura e un’arte (il Manierismo
e il Barocco) che si ripiegano su stesse, come hanno fatto i Principati da
tempo.
L’Italia esce di
scena dopo quattro secoli che l’hanno vista primeggiare: le dimensioni ridotte
degli stati avevano permesso di costruire passo dopo passo una realtà nuova,
ricca e complessa, sfociando in istituzioni democratiche e in due secoli
straordinari nei quali tutti gli aspetti della cultura e dell’arte hanno
raggiunto risultati importanti, tanto da essere da esempio e imitazione per gli
altri popoli. Ancora oggi alcuni, di fronte alla difficoltà a trovare le nostre
radici, cercano i loro riferimenti nelle grandi stagioni umanistica e
rinascimentale, come se fosse possibile dimenticare le origini cristiane e la
distruzione operata dall’ideologia dopo la seconda guerra mondiale (di questo
parlerò nella Lezione n.9).
Le dimensioni
ristrette dei Comuni, delle Signorie ed anche dei Principati hanno saputo avere
la meglio nei confronti di istituzioni con pretese universalistiche frammentate
e dilaniate al loro interno. Come i Greci ebbero la meglio sui Persiani così
gli stati borghesi ebbero la meglio su Impero e Papato, ma dovettero soccombere
nei confronti delle Monarchie Nazionali, sempre più solide e vitali. I Greci si
unirono e vinsero perché ebbero una visione strategica: unione di un popolo che
parlava la stessa lingua e si faceva portavoce di una civiltà abbastanza
delineata, che univa la cultura all’autogoverno all’imperialismo. Gli stati
italiani avevano una lingua letteraria comune anche se nel 1500 si opposero ben
tre posizioni, quella di Bembo, quella di Machiavelli e quella di Baldassar Castiglione.
I Greci sentivano i
Persiani come nemici, altra cosa rispetto a loro, “barbari” come li chiamavano;
gli Italiani avevano nemici occasionali, si impegnavano in guerre locali, ma
non sentirono mai la loro civiltà in pericolo. I Greci sapevano di dover fare i
conti con rapporti di forza che fecero tornare a loro favore puntando
sull’identità e il carattere stretto tra popolo, istituzioni ed esercito. Gli
italiani rimasero chiusi nella ristrettezza dei loro confini, fieri della
propria cultura, ma incapaci di un vero e proprio confronto con chi si trovava
fuori dalla “confort zone” della penisola: avevano resuscitato i
classici ma non ne avevano imparato la lezione, soprattutto quella dei Romani,
che avevano saputo portare il nome di Roma sempre più lontano. Con gli
eserciti, certamente. Con la guerra, senza dubbio. Come è sempre stato naturale
per le comunità umane: si vis pacem, para bellum. La guerra durata cento
anni aveva forgiato francesi e inglesi, dando loro anche il senso di
un’identità per cui valesse la pena vivere. Gli Stati Italiani rifuggivano la
guerra e così lasciarono il terreno alle scorrerie di Carlo VIII e dei Lanzichenecchi
di Carlo V.
Ci sono momenti in
cui bisogna avere uno sguardo più ampio anche se le cose vanno bene, perché
questo status può cambiare: e questa è una lezione che vale anche ai giorni
nostri, soprattutto per coloro che combattono la globalizzazione e persino
l’Europa.
Non serve tirare in
ballo ancora una volta l’Italia dei campanili, perché quell’Italia ha prodotto
risultati eccellenti che il mondo ci ha invidiato; nel 1500 quell’Italia non
esisteva più e le rivalità rimanevano su un piano regionale. La Spagna che ora
aveva anche l’Imperatore non era uno Stato moderno, ma guardava oltre il
proprio orticello, addirittura oltre l’Atlantico e questo le permise di vivere
una stagione straordinaria a tutti i livelli, il famoso Siglo de Oro,
anche se poi dovette pagare la debolezza strutturale che la caratterizzava: e
fu la tragedia della Armada Invencible ad
opera degli inglesi. Ancora oggi spagnoli e ispanofili cercano giustificazioni
in quella tremenda sconfitta (maltempo, modesti e piccoli errori, caso e
sfortuna), ma la realtà è che l’Inghilterra aveva una struttura molto più
solida.
L’Inghilterra,
appunto, dopo la Guerra dei 100 anni e la Guerra interna delle Due Rose aveva
iniziato una trasformazione profonda con la nascita di una borghesia su scala
nazionale, di un proletariato sempre più diffuso, di un’agricoltura
capitalistica: la così detta Rivoluzione Industriale nasce prima di tutto sul
terreno sociale per dar vita a quelle innovazioni tecnologiche come la macchina
a vapore di cui solo parlano i libri di storia. L’artigiano va oltre la propria
bottega e può travalicare questi confini ristretti.
La Francia si è
dotata di uno Stato centralizzato fortissimo e grazie al mercantilismo riesce
ad avviare una politica espansionistica simile a quelle inglese e spagnola;
senza il rinnovamento della prima ma anche senza i ritardi della seconda.
E l’Italia resta a
guardare. Che fine hanno fatto le Repubbliche Marinare che pochi secoli
addietro avevano avuto un ruolo primario nella crescita dell’economia europea?
Amalfi viene
soffocata dal Regno di Napoli sempre più sotto la dominazione spagnola.
Pisa, nonostante la
crescita della Toscana, rimane subordinata alla strategia regionale dei Medici.
Anche Genova soffre
per la mancanza di un retroterra significativo: forte almeno dopo Andrea Doria
al proprio interno, ma debolissima nei confronti dell’estero.
Rimane Venezia, la
cui potenza era andata oltre lo spazio circostante diventando una vera e
propria potenza soprattutto nei rapporti con l’Oriente. Venezia è l’unico Stato
della penisola italiana che oltre ad avere una strategia più ampia mantiene e
sviluppa le prerogative moderne che l’avevano caratterizzata anche ai tempi
della Serrata del Gran Consiglio: rimarrà abbastanza neutrale rispetto al
dominio spagnolo sulla penisola, rimarrà neutrale rispetto alla Chiesa
Controriformista (esemplari gli avvenimenti che fanno da contorno alla vicenda
che coinvolse il frate Paolo Sarpi), ma anch’essa rimane schiacciata dal suo
passato. Come è vero che navi fiamminghe portavano a Venezia l’olio pugliese,
perché Venezia non contrastò olandesi e inglesi nel nuovo commercio delle
spezie? Anche Venezia fu vittima di una scelta che in fondo rimaneva a livello
regionale, una regione allargata certamente, ricca di cultura e di iniziative
importanti come la straordinaria attività editoriale di Aldo Manuzio, ma inadeguata rispetto ai tempi che erano evoluti e
continuavano ad evolversi. E così invece di accettare la sfida anche Venezia
scelse di ritirarsi; la borghesia un tempo vanto dell’Europa ora preferiva
acquistare terre in abbondanza nel retroterra veneto invece di investire in
nuove imprese. Alcuni storici hanno usato per queste operazioni il termine di
“rifeudalizzazione”, termine non corrispondente al vero se preso nel senso
stretto della parola, ma che vuole mettere in evidenza questa ricerca di
garanzie piuttosto che di successi attraverso il rischio imprenditoriale. Certo
Venezia continuò a produrre cultura e arte: le ville palladiane, la pittura
veneta del ‘500 fino a Tiepolo e Guardi, la scultura di Canova e tanto altro.
Eppure tutto ciò non le impedì la fine ingloriosa del Trattato di Campoformio
del 1797 con il quale fu ceduta all’Austria: Le ultime lettere di Jacopo
Ortis ci ricordano il senso di delusione e smarrimento che colpì una parte
della popolazione.
Le Repubbliche
Marinare escono di scena, lentamente ma inesorabilmente. Eppure l’Italia non
manca di navigatori, veri e propri uomini di scienza e di tecnica, non solo dei
capitani coraggiosi. La lista è lunga e molto più numerosa dei grandi
navigatori portoghesi.
Su Cristoforo
Colombo, i suoi fratelli e il figlio Diego, non vale la pena parlare, tanto
sono noti, ma non sono i soli. I Caboto, padre e figlio, navigarono nel Nord America
e approfondirono la conoscenza di quello che sarebbe divenuto il Canada. Antonio
Pigafetta partecipò alla circumnavigazione di Magellano e la portò a termine
dopo l’uccisione del grande navigatore portoghese avvenuta a metà strada.
Amerigo Vespucci con i suoi quattro viaggi navigò lungo le coste atlantiche
fino all’attuale Argentina, mentre Giovanni da Verrazzano si mosse lungo gli
Stati Uniti e il Canada.
Di loro rimane
traccia non solo nella storia ma anche nella geografia. Vespucci ha dato il
nome all’America e per la somiglianza delle abitazioni simili a quelle di
Venezia dette il nome di Venezuela alla parte settentrionale dell’America del
Sud, Colombo si ricorda nello stato della Colombia, i Caboto hanno lasciato il
ricordo di sé nel termine fondamentale di “cabotaggio” indicante il
trasporto tra porti non molto lontani. Il Ponte Da Verrazzano è il ponte di New
York posto non a caso all’ingresso della Baia di New York; nessun altro ponte è
dedicato a navigatori nella metropoli americana.
Insomma non esiste
slancio italiano verso gli altri continenti, ma esiste il contributo di grandi
italiani alla conoscenza del nuovo mondo.
Se mettiamo da parte
una ricostruzione basata sul rapporto di causa-effetto e proviamo ad immergerci
nei flussi della storia allora riusciamo a capire meglio.
La crisi degli Stati
italiani inizia con la fine del 1400, ma il Rinascimento caratterizza lo
sviluppo della cultura per tutto il 1500, mentre, diversamente, i grandi
navigatori sono all’opera a cavallo tra ‘400 e ‘500.
La storia è come un
enorme fascio liquido in cui alcune masse si muovono contemporaneamente in
direzioni diverse e con intensità diverse, contribuendo ora a rafforzare ora a
indebolire certi percorsi. Il Rinascimento, protrattosi fin quasi alla fine del
1500, ha fatto credere che l’Italia fosse ancora al centro dell’Europa e dunque
del mondo, mentre i grandi navigatori già mostravano quali fossero i flussi
decisivi, andando a dare il loro contributo ora alla Spagna ora al Portogallo
ora alla Francia ora all’Inghilterra. Aver letto quel segnale avrebbe potuto cambiare il futuro della penisola, almeno
in parte. Lo stesso probabilmente sta avvenendo oggi con la fuga delle
intelligenze italiane, grandi e medie, dal nostro Paese: tutti concordano sulla
necessità di invertire questa tendenza, ma nessuno (o quasi) legge questo
declino come un possibile elemento definitivo. Scriveva Ricoeur: anche il
passato aveva un futuro. Non esiste determinismo e nulla garantisce
all’Italia di oggi di rimanere ai vertici tra i Paesi del mondo.
Vediamo cosa succedeva
negli altri Stati italiani.
Il Piemonte sotto i
Savoia non si è mai interessato della penisola, tanto che la stessa dinastia fa
riferimento a una regione d’Oltralpe e la capitale del Ducato
è stata a lungo Chambery. Non solo, prima di
diventare nel XIX secolo il punto di riferimento dell’unità nazionale, i Savoia
per estendere il proprio dominio erano più interessati a rivolgersi alla
Svizzera e solo più tardi decisero di agire per procedere a una riunificazione
degli stati della penisola. Insomma lo Stato più potente non aveva radici
italiane e difficilmente poteva vantare un pedigree tale da catalizzare
l’entusiasmo; questo fu contingente e d’occasione e dunque incapace di
sedimentare una vera e propria identità nazionale.
La presenza spagnola
decisa dalla Pace di Cateau Cambrésis del 1559 segna l’avvento del predominio
spagnolo in Europa e in particolare in Italia: in Sicilia, in Sardegna e a
Napoli attraverso due Viceré, per mezzo di un Governatore in Lombardia e nello
Stato dei Presìdi, importante stato creato appositamente come insieme di
roccaforti marine nel centro dell’Italia tirrenica.
Dopo la grande
stagione del Rinascimento l’Italia visse un secolo particolarmente duro in cui
la dominazione spagnola si impose in forme estremamente incisive perché la
Spagna non aveva né un’economia capitalistica né istituzioni moderne. Essa
aveva dimostrato in America Latina cosa potesse e cosa sapesse fare: non era
stupidità né ignoranza, era solo che si trattava di un Paese che viene dal
passato e dunque pensa ad arricchirsi a danno degli altri piuttosto che
favorire uno sviluppo da cui avrebbe guadagnato. E così prende metalli preziosi
in Messico e Perù come soldi in Italia attraverso l’imposizione di tasse; usa
la popolazione come massa da arruolare; impone il proprio potere attraverso una
rete di nobili spagnoli da accontentare, al di là dell’Oceano come nella
penisola italiana.
Il quadro del
dominio spagnolo in Italia è ben rappresentato da Manzoni ne I promessi
sposi per quanto riguarda sia i soprusi sia la concezione del governo sia
le condizioni di vita della popolazione. E Manzoni parla di una realtà tra le
meno svantaggiate della penisola, per questo non è difficile immaginarsi quale
fosse la realtà dell’Italia meridionale.
Una parentesi
necessaria (un ramo della rete) riguarda un concetto molto in voga oggi giorno:
l’affermative action. Con questa espressione si vorrebbe risarcire i
gruppi che in passato hanno subìto danni e svantaggi; essa nasce ed è rivolta
principalmente a popolazioni di colore, indigeni, donne. Ma un concetto è un
concetto e dunque se esso non è strumentale deve valere per tutti i gruppi
svantaggiati a causa di danni altrui. Applicandolo seriamente, allora la Spagna
dovrebbe risarcire, e non poco, il popolo italiano. Se è vero il concetto
allora dovrebbe valere per tutti; se invece si pongono dei distinguo allora il
concetto cessa di essere tale e diventa espressione strumentale di volontà di
potenza e sensi di colpa.
Ovviamente colloco
l’affirmative action in questa seconda prospettiva.
La Storia ha dei
punti fermi oltre i quali dobbiamo andare con strumenti nuovi e non con
recriminazioni a posteriori.
Chiusa la parentesi,
vediamo come posso concludere. La conoscenza procede a spirale: tornare
indietro per andare avanti; e dunque tornerò all’inizio. Non cause-effetti, ma
flussi. Non per incapacità, ma per il carattere estremamente fluido della
realtà che si fa Storia. E neppure colpe, perché la Storia in quanto racconto (dal
greco: vedere, conoscere, giudicare) deve saper
andare oltre, mentre scelte individuali, determinate nello spazio e nel tempo,
si incontrano e si fondono generando qualcosa che spesso, anzi in genere,
sfugge ai singoli, perché “il tutto è maggiore della somma delle parti”.
Sul declino non ci
sono dubbi: è difficile negarlo.
Amici e studiosi,
anche di un certo spessore, dividono la storia d’Italia in due fasi, una
positiva e felice che si concentra nell’Umanesimo e nel Rinascimento e che
dunque termina con il 1500 e l’altra, gli ultimi 500 anni, in cui abbiamo
assistito a una continua discesa, non certo in valori assoluti ma sicuramente
in relazione agli sviluppi degli altri paesi. Detto ciò, questi amici e
studiosi dicono che per rilanciare il nostro paese basterebbe richiamarsi a
quella stagione, a quei due secoli straordinari, che ci vengono invidiati e che
hanno lasciato così grandi testimonianze.
Purtroppo è una
prospettiva allettante, ma anche un vicolo cieco. La vita, individuale e
collettiva, può costruirsi e crescere solo se fa i conti con il passato e
questo vuol dire fare i conti con tutto il passato. Rimuovere i secoli tra il
1600 e il 2000 non fa bene: non si può interrompere la storia di un paese
quando ci fa comodo, non tanto per ricercare un impossibile carattere italico,
quanto perché anche per gli stati e per i popoli vale quanto accade agli
individui. Fare i conti con se stessi è cosa diversa da rimpiangere la nostra
infanzia o la nostra adolescenza e tanto meno farne il momento chiave per
ricostruire la nostra persona ormai in là con gli anni. Fare i conti con se
stessi vuol dire avere il coraggio di guardare in faccia la realtà di cui noi e
i nostri antenati siamo stati protagonisti.
Nessuno anche in
quei 400 anni ha fatto sì che l’Italia fosse qualcosa in cui identificarsi; non
che siano mancate delle voci, ma tali erano e tali sono rimaste. Vediamo il
poi.
Il 1600 fu un secolo
di transizione e anche se furono ottenuti risultati non indifferenti in diversi
campi (es. la scienza, il teatro) il dominio straniero proseguì senza grossi
scossoni.
Il 1700 fu un secolo
molto più vivo grazie anche alle dinamiche europee e anche nella penisola
italiana ci furono delle riforme che modernizzarono alcuni stati. Sulla spinta illuminista si procedette a un
rinnovamento che però era ben poco identificabile con un “sentimento italiano”:
le più importanti infatti furono opera degli austriaci in Lombardia e della
Dinastia Imperiale degli Asburgo-Lorena in Toscana.
Il 1800 è il secolo
delle nazioni e lo fu anche per l’Italia e per la prima volta si sente
circolare il nome di Italia come patria e non solo come retaggio del passato o
come sola entità geografica. E per la prima volta, grazie a Cavour e alla
Destra Storica, l’Italia cominciò a diventare qualcosa per cui valesse la pena
combattere e in cui identificarsi. Le riforme economiche che stavano
avvicinando Nord e Sud furono interrotte da un quadro internazionale che,
sempre più orientato al protezionismo, le rese difficili. La lingua c’era e il
problema di alfabetizzazione stava procedendo in modo positivo, ma, purtroppo,
mancava tutto il resto: “Abbiamo fatto l’Italia, dobbiamo
ora fare gli italiani”, disse -sembra-
D’Azeglio. I governi successivi cercarono di fare quanto facevano gli altri
paesi, ma si trattò di un nazionalismo senza nazione e i miglioramenti avvenuti
per merito di Giolitti non rafforzarono un sentimento che era ancora molto
debole. Fu necessaria la Prima Guerra Mondiale con i suoi milioni di morti
perché si formasse una prima, ampia coscienza popolare, su cui lavorò
moltissimo Mussolini, che fu di fatto colui che fece il possibile (nel bene e
nel male) perché l’Italia recuperasse le sue radici, soprattutto romane. Certo
fu anche propaganda, ma non fu solo propaganda: fu in quei vent’anni
che l’Italia come nazione prese forma, ma essi terminarono con il completo
asservimento alla Germania da parte di Mussolini, dopo il suo arresto da parte
del Re, e con la guerra civile tra Repubblichini e Resistenza. E quello che era
stato un sentimento di identità nazionale ha cominciato a dissolversi.
Il dopoguerra è condizionato
dalla guerra fredda, ma i governi democristiani, pur attivi in una gestione
progressista dello Stato, pensarono più a compromessi, lasciando nelle mani del
Partito Comunista la battaglia culturale. E così, mentre nazione si
identificava con fascismo, veniva esaltato l’Internazionalismo proletario: guai
a parlare di patria e di nazione. Il Risorgimento non aveva basi popolari
(aveva detto Gramsci), il liberalismo aveva favorito l’avvento del fascismo, il
fascismo era il male assoluto e non se ne poteva parlare, bisognava fare come
in URSS e criticare gli Stati Uniti.
E così torna alla
ribalta la mancanza di una classe dirigente che si facesse portavoce degli
interessi nazionali di un popolo.
Sto parlando di
“identità nazionale” e non sto valutando riforme e iniziative che possono
essere state positive.
In Francia anche
senza incorrere nello sciovinismo, che è una forma esagerata di nazionalismo,
esiste un sentimento popolare che fa sentire orgogliosi di essere francesi. A
parte Giovanna d’Arco chi non ricorda il passo del film Casablanca quando i
francesi presenti, di fronte all’arroganza dei soldati tedeschi, si uniscono
nel canto della Marsigliese? L’Inno francese è conosciuto da tutti, mentre
l’Inno di Mameli non solo non è noto ai più, ma è un oggetto continuo di
critiche e di proposte di affossamento. Forse Verdi starebbe meglio, ma è
quello l’Inno che per il valore storico rappresenta un unicum. E ovviamente poi
ci sono i pacifisti, per cui quella parte in cui si dice “siam pronti alla morte”
è nefanda, orrenda e diseducatrice. Come se le guerre non fossero parte
decisiva del divenire storico e come se toglierle dalla storia renderebbe il
mondo più bello.
Gli Stati Uniti
d’America sono un altro esempio di cosa voglia dire sentirsi popolo e nazione e
lo sono al massimo livello proprio perché sono composti da numerose etnie (il
famoso melting pot), etnie che non rinunciano alla loro storia, ma che in
genere non ne fanno un discrimine, perché essere americani è la loro nuova
identità.
In Spagna la Guerra
civile per quanto devastante non ha impedito che il popolo continuasse a
identificarsi nella storia di un grande paese e in un paese dalla grande
storia. Persino in America Latina si va orgogliosi delle loro origini spagnole
e i recenti sviluppi delle autonomie non l’hanno indebolita; anche l’esperienza
catalana non rinnega questo fatto e le pretese secessionistiche non sono una
guerra di liberazione, ma l’ennesimo parto ideologico del Novecento.
Altri esempi
potrebbero essere fatti ed è vero che oggi si pongono problemi diversi, che
riguardano soprattutto il rispetto delle minoranze e le garanzie di autonomia,
cioè come lo Stato democratico del XXI secolo riesce a rispondere alle nuove
istanze individuali e particolari, soprattutto in termini di sussidiarietà. La
risposta non può essere l’atomizzazione, ma una corretta articolazione tra
centro e periferia e in una collaborazione sovranazionale: in questo sviluppo
si muovono meglio quei paesi che hanno acquisito un’identità nazionale forte.
Per gli altri il cammino risulta essere molto arduo e soprattutto confuso,
perché privo di radici e fondamenta solide. L’Italia è tra questi e le
difficoltà degli ultimi decenni non sono strettamente politiche, ma
profondamente storiche e culturali.
E’ in questa
direzione che ho inteso svolgere la mia riflessione.
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